Massimo Pietroselli: romanzi e antologie

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venerdì 5 settembre 2008

L'atto simultaneo dell'immaginazione

William Somerset Maugham (1874-1965) è stato autore di grande successo. Il suo periodo d'oro furono gli anni '30-'40 del secolo scorso, ma ancora oggi i suoi romanzi vengono ristampati (in Italia, da Adelphi), e recentemente da "Il velo dipinto" è stata tratta una nuova riduzione cinematografica, dopo quella con Greta Garbo nei panni della moglie adultera.
La sua è una prosa da narratore di razza, di quelli che avendo visto il mondo e conosciuto l'umanità in situazioni estreme non perdono tempo a raccontare del proprio ombelico; a volte arricchita da humour inglese; spesso da un certo cinismo nel commentare le miserie umane; sempre da un certo distacco, lo stesso distacco del pittore che si allontana dal quadro che sta dipingendo per studiarlo nella giusta prospettiva. I suoi occasionali aforismi a commento di certe situazioni, che sembrano trinciati dalla poltrona di un club per soli uomini, lasciano supporre che si infischiasse della teoria del narratore nascosto. D'altronde, come ebbe a scrivere:

Ogni convenzione ha i suoi svantaggi. Che bisogna mascherare il più possibile - e quando mascherarli non si può, tanto vale ammetterli apertamente.

Spesso, Maugham introduce i suoi romanzi con un tono colloquiale e fascinoso che mescola riferimenti al testo, ricordi personali e considerazioni sulla vita e la letteratura. Ad esempio, scopriamo nella prefazione a "Il velo dipinto" che la trama del romanzo gli è stata suggerita, anni prima, dalla lettura dei versi di Dante su Pia de' Tolomei. Da qui, Maugham passa a ricordare i suoi giovanili giorni trascorsi a Firenze, la sua affittuaria, il gusto del Chianti, le circostanze in cui venne a conoscenza di quei versi e come e perché solo parecchi anni dopo quell'idea si fosse trasformata in romanzo. Dopo di che, riflette come tra sé che quello è stato il solo caso in cui una trama gli è stata suggerita da un intreccio piuttosto che da un personaggio. E qui arriviamo al punto.
Uno degli argomenti più gettonati nelle scuole e nei manuali di scrittura creativa è questo: viene prima il personaggio o la storia? (come se la fantasia dovesse procedere come i sillogismi di Aristotele, dalle premesse alla conclusione...) Come al solito, in questo caotico blog ci si limita a proporre quel che ha dire sull'argomento questo o quello scrittore professionista. E sentire Maugham è sempre interessante, tanto che presto verrà riutilizzato (la sua prefazione a "Ashenden" è molto stimolante!).

Spiegare la relazione tra intreccio e personaggio è difficile. Certo non si può pensare a un personaggio nel vuoto; appena lo pensi, lo pensi in qualche situazione, occupato a fare qualcosa, sicché il personaggio e almeno le linee principali del suo agire sembrano essere il risultato di un atto simultaneo dell'immaginazione.

In rete è disponibile un articolo di Maugham molto interessante, "Come scrivo i racconti". Qui si sofferma sui personaggi, il che mi sembra faccia pendant con ciò che si diceva sopra:

Com'è noto, molti di noi sostengono che quando creano un personaggio non pensano mai a un modello in carne e ossa. Secondo me si sbagliano. Non analizzano con sufficiente scrupolo i ricordi e le impressioni a partire dai quali hanno costruito le figure che amano immaginare di essersi inventate. Se lo facessero scoprirebbero che immancabilmente questo o quel personaggio - sempre che non sia, come spesso accade, preso da un altro libro - è stato ricalcato su una o più persone da loro viste o conosciute. Del resto, i grandi scrittori del passato non hanno mai nascosto che i loro fossero ritratti dal vero...
Se quello che si cerca è un personaggio credibile, con una sua individualità, la cosa migliore è avere un modello cui ispirarsi. Dal nulla, l'immaginazione non crea nulla. Le serve il pungolo di una sensazione. Se la nostra fantasia è stata colpita da una caratteristica particolare (magari solo per noi) di qualcuno, ma poi quel qualcuno lo descriviamo in un modo completamente diverso, finiamo per falsificare tutto. I personaggi hanno una loro coerenza, e se si cerca di alterarla - ad esempio trasformando un tappo in uno spilungone (come se la statura non avesse una sua influenza sul carattere), o un tipo fisicamente fatto per essere flemmatico in un iracondo - si distrugge quella che Baltasar Gracián, con un'espressione meravigliosa, chiamerebbe la sua plausibile armonia.

lunedì 28 luglio 2008

Forma e sostanza

La struttura determina le proprietà chimico-fisiche delle molecole. E' un po' come dire che la forma determina la sostanza (vedi l'articolo sull'intelligenza della forma).
D'altra parte, può esistere una forma senza sostanza, ma non può esistere una sostanza senza forma.
Quando Martin Eden decide di produrre racconti "alimentari", da bravo apprendista comincia ad analizzare quelli pubblicati sulle riviste specializzate. Ecco cosa scopre a proposito delle novelle "rosa" (uno dei genere letterari più venduti, ben più dei gialli o della fantascienza):

La ricetta consisteva in tre parti:a) una coppia di innamorati viene brutalmente separata; b) un fatto o un avvenimento qualsiasi li riunisce; c) campane nuziali. Il terzo componente era una quantità fissa, ma il primo e il secondo potevano variare all’infinito. In tal guisa, la coppia di innamorati poteva venir divisa da motivi di incomprensione, da capricci della sorte, da rivali gelosi, da genitori irati, da scaltri tutori, da parenti intriganti eccetera; potevano venir riuniti da un atto d’amore dell’innamorato, da un atto analogo dell’innamorata, da un mutamento del cuore dell’uno e dell’altra, da una forzata confessione dello scaltro tutore, o del parente intrigante, o del geloso rivale; dalla confessione volontaria degli stessi, dalla scoperta di un segreto insospettato, dall’arrembaggio al cuore della fanciulla da parte dell’innamorato, e via discorrendo, all’infinito. Era molto efficace che la dichiarazione d’amore avvenisse da parte della fanciulla, mentre aveva luogo la riconciliazione e, un pezzetto per volta, Martin scoperse altre astuzie decisamente piccanti ed efficaci. Ma le campane nuziali alla fine erano l’unica cosa con cui non era possibile prendersi alcuna libertà… quanto alla quantità, la ricetta prescriveva una dose minima di 1200 parole e una massima di 1500.

Abbiamo già visto come Narcejac riduca la struttura del giallo a un triangolo, ai cui vertici sono la vittima, l'assassino e l'investigatore.
Anche il romanzo di spionaggio ha le sue regole. Umberto Eco ha esaminato i romanzi di 007 trovandovi alla base una struttura in "otto mosse:"

Lo schema invariante è il seguente:
A) M muove e dà incarico a Bond
B) Cattivo muove e appare a Bond (eventualmente in forma vicaria)
C) Bond muove e dà un primo scacco al Cattivo – oppure Cattivo dà primo scacco a Bond
D) Donna muove e si presenta a Bond
E) Bond mangia Donna: la possiede o ne inizia la seduzione
F) Cattivo cattura Bond (con o senza Donna, o in momenti diversi)
G) Cattivo tortura Bond (con o senza Donna)
H) Bond batte Cattivo (lo uccide, o ne uccide il vicario, o ne assiste all’esecuzione)
I) Bond convalescente si intrattiene con Donna, che poi perderà
Fleming rinuncia di fatto alla psicologia come motore narrativo e decide di trasferire caratteri e situazioni a livello di una oggettiva e convenzionata strategia strtturale… passa dal metodo psicologico a quello formale.

mercoledì 27 febbraio 2008

Come scrivo un romanzo: Wodehouse

Un articolo di Repubblica del 24 gennaio scorso (Il benessere? Viene dal buonumore -In tanti con lo "Yoga della risata") racconta lo sviluppo di una nuova disciplina, lo Yoga della Risata appunto. Inizia così: "Ridono senza un motivo per migliorare il proprio benessere fisico e psicologico, si riuniscono in tutto il mondo intorno a cinquemila e cinquecento centri specializzati che vanno dalla Thailandia alla Svezia, dal Giappone all'Italia e la prima domenica di maggio di ogni anno festeggiano la loro giornata mondiale. Chi sono?"
Io un'idea ce l'avrei, ma la tengo per me. Non ho però idea se questi sghignazzatori conoscano Pelham "Plum" Grenville Wodehouse (1881-1975), uno dei più fini scrittori umoristici prodotti dalla Gran Bretagna, e i suoi personaggi, dal maggiordomo Jeeves a Ukridge fino all'Imperatrice di Blandings: forse no, altrimenti un motivo per ridere l'avrebbero, e allora che fine farebbe la disciplina?
Wodehouse è un altro scrittore compulsivo, come Simenon e Dard, di cui ho parlato in precedenza. Nella sua lunga vita ha scritto un centinaio di romanzi, trenta lavori teatrali e una ventina di sceneggiature per il cinema. Inoltre, è stato paroliere per celebri musicisti. Senza aderire ad alcun Centro della Risata, mantenne sempre un umore allegro: durante la Seconda Guerra Mondiale, fu internato in un campo di concentramento tedesco, nel quale scrisse un romanzo - umoristico, ovviamente. Ingenuamente, accettò di parlare delle condizioni di prigionia dai microfoni della radio nazista: lo fece con tono leggero, fu accusato di tradimento, difeso da George Orwell e decise che non sarebbe mai tornato in Inghilterra - dove, del resto, non viveva più già da vent'anni.
A novantun anni ("Novantuno e mezzo! Novantadue a ottobre" precisava con civetteria) rilasciò alla "Paris Review" (nella serie "The Art of Fiction") un'intervista, in cui parla della sua attività di romanziere. Eccone alcuni brani.

Qual è la sua giornata tipo lavorativa, adesso?
Comincio ancora alle sette e mezza. Faccio la mia quotidiana dozzina di esercizi, colazione e vado nel mio studio. Quando mi trovo tra due libri, come ora, siedo in poltrona, penso e prendo appunti. Prima di cominciare un romanzo, raccolgo circa quattrocento pagine di annotazioni, per lo più incoerenti. Ma arriva sempre il momento in cui mi accorgo che un romanzo sta per iniziare. Riesco più o meno a vedere come si sviluppa. Tutto il resto è questione di dettagli.

Quindi lei predispone tutto in anticipo?
Sì. Per un romanzo umoristico devi avere uno "scacchiere" definito e testarlo, così da capire quando e dove si sviluppa la commedia... separarlo in diverse scene (puoi ricavare una scena da praticamente tutto) e lasciare tra loro meno "fuffa" possibile.

E' davvero possibile sapere dove si trova qualcosa di divertente in un preciso punto dello "scacchiere"?
Certo, anche se poi, nello sviluppo della storia, non gli rimani fedele. Non credo di essere mai rimasto fedele a uno scenario. Quando ho una scaletta ben definita, posso lavorare indefessamente. Lavoro al mattino, poi vado a fare una passeggiata, poi ricomincio a scrivere. Non lavoro mai dopo cena. Sono le scalette, la difficoltà: ci vuole un sacco di tempo per metterle a punto. Mi piace pensare ad alcune scene specifiche, non importa quanto assurde o improbabili, e poi lavorare avanti e indietro per giustificarle nella storia.

Corregge spesso? Fa molte revisioni?
Sì. E spessissimo mi accorgo che qualcosa andava in un altro posto: una scena che ho messo nel capitolo due mi accorgo, al capitolo dieci, che sta meglio qui, adesso.

Se dovesse dare un consiglio a uno scrittore di romanzi umoristici, cosa direbbe?
Arrivare al dialogo il prima possibile. Niente mette fuori uso il lettore più di una gran pennellata di prosa proprio all'inizio. Credo che il successo di un romanzo - se è un romanzo di azione - dipenda dai punti forti. Ti devi chiedere: "Quali sono le scene madri?" e quindi spremere ogni goccia di succo da loro. Io penso ai personaggi come ad attori sul palcoscenico. Mi dico: se un grande attore avesse questo ruolo, e capisse che dopo un forte primo atto non avesse praticamente nulla da fare per tutto il secondo, bè se ne andrebbe. Come posso dargli da fare per tutta la recita?

Si è mai arrabbiato con i critici? Ha mai pensato che fossero poco gentili?
No, mai. Non si può piacere a tutti.

Che ne pensa dei Beats? Qualcuno come Jack Kerouac, per esempio, che è morto qualche anno fa?
Jack Kerouac è morto! Davvero?

Sì.
O Dio. Non fanno che morire, vero?

martedì 12 febbraio 2008

L'intelligenza della forma

Meccanismi, meccanismi... in fondo il problema è tutto qui.
Avete una visione olistica o riduzionistica della Letteratura?
Qual è la sede del godimento artistico? Il cuore, il cervello o, come sosteneva il solito burlone di Nabokov, un punto in mezzo alle scapole?
La risposta, ve la preannuncio, è: "42".
(se non sapete a cosa mi riferisco, peggio per voi.)
Mentre queste domande incombono, di seguito riporto un articoletto uscito sul numero 94 di Vibrisse, a firma Giovanna Zoboli. Si intitola "L'intelligenza della forma" e mi sembra un chiarissimo contributo ai concetti di meccanismo, di costruzione, di artificio lettario che tanto piacciono a un modesto scrittore di formazione ingegneristica come il sottoscritto.

Una ventina d’anni fa, nelle sale della Triennale (esposizione milanese di arti industriali), ricordo l’incontro con un oggetto stupefacente: una gigantesca macchina il cui unico scopo era far muovere una biglia d’acciaio. Scivoli, piani, rotaie, ponti, scalette, tubi, altalene dislocati ad arte perché la pallina procedesse lungo un movimentato e complesso percorso. Il meccanismo funzionava sfruttando pesi, dislivelli, velocità e attriti, secondo le leggi della dinamica e della fisica. La gente, me compresa, si affollava intorno alla macchina e, in perfetto silenzio, rapita e concentrata, fissava il corpo metallico in movimento.
È l’unica cosa che ricordo di quella Triennale. Ma ricordo anche la ragione per cui tale memoria è durata fino a oggi. La macchina mi parve una metafora perfetta dei meccanismi narrativi. Quell’oggetto era una storia. Attraverso un sofisticato marchingegno, raccontava le vicende della sua protagonista: una biglia che – sebbene d’acciaio e pertanto non dotata di sentimenti, raziocinio e volontà – nel compiere il suo percorso mostrava una personalità spiccatissima. Aveva, infatti, indugi, arditezze, pigrizie, regressioni, slanci, depressioni, fin anche rabbie, ripensamenti e collere. O, almeno, procedeva così abilmente lungo la sua strada, da suggerire agli osservatori questa intera gamma di emozioni.
Questa macchina si sarebbe potuta definire “altamente credibile”. Non per niente mi è tornata alla mente leggendo gli interventi sul “farsi credere” di questi ultimi numeri.
Ma dal punto di vista della credibilità della storia, non credo che a uno scrittore sia necessario sapere ogni dettaglio della materia di cui scrive. Credo sia, in qualche modo, illusorio pensare che il possesso di tutte le informazioni serva, in sé, a costruire un testo capace di farsi leggere da cima a fondo.
In sostanza, la credibilità non è determinata dall’eventuale, comprovata verità o verosimiglianza dei contenuti di un testo. Credo che si tratti di qualcosa che con la verità o la verosimiglianza ha molto a che fare, ma in un modo più complesso e sottile di un rapporto diretto; in un modo anche sfuggente, direi, non del tutto controllabile dallo scrittore.
In qualche modo, la credibilità è uno degli attributi fondamentali non solo della letteratura, ma di tutte quelle particolari realizzazioni umane che per comodità mettiamo sotto il nome di “arte”. Per quanto mi riguarda, penso che la credibilità sia una sorta di “intelligenza della forma”.
Non di rado chi scrive ha l’impressione di risolvere un problema di logica matematica, anche se magari sta scrivendo solo una brochure aziendale. Non credo che la logica sottesa alle strutture del linguaggio si allontani molto dalla complessità e dal rigore della matematica. Ho avuto spesso questa impressione, mentre scrivevo: forse l’impressione sopra descritta di aver scritto una cosa “vera”, nonostante la consapevolezza della sua natura del tutto fantastica, deriva proprio da questo. Il linguaggio possiede una sua profonda intelligenza, che lo scrittore deve imparare a conoscere e a utilizzare.
Non credo che creare una forma intelligente, dotata in massimo grado dell’attributo della credibilità, sia qualcosa di molto diverso da quello che facevamo da bambine, giocando alla settimana enigmistica o guardando il cielo notturno, d’estate. In entrambi i casi, si tratta di stabilire nessi di senso profondo fra le cose. Stabilire vincoli di necessità tra elementi che magari appaiono uniti, ma in modo inesplicabile e misterioso, o addirittura sembrano lontanissimi fra loro, del tutto inconciliabili. Il linguaggio è uno strumento prodigioso, in questo senso. È come la matita che compone il disegno nascosto. O come l’occhio, che compone le linee che collegano stelle lontanissime fra loro, formando il disegno, del tutto arbitrario, ma assolutamente vivo, vero e pulsante di significato, delle costellazioni. Una sorta di meravigliosa macchina per stanare significati.
Viene allora un sospetto: e se fosse la biglia a descrivere il funzionamento della macchina anziché la macchina a raccontare la storia della biglia? Che siano tutt’e due le cose insieme? La cosa non è affatto improbabile.

Una precisazione: ma perché diavolo in questo blog lascio sempre la parola ad altri? Non certo per la passione dell' "ipse dixit".
E' solo che è così faticoso scrivere cose già dette da altri...
L'originalità, dopotutto, è una virtù decisamente sopravvalutata.

giovedì 10 gennaio 2008

La dura vita dello scrittore di gialli

Frédéric Charles Antoine Dard (1921 - 2000) è, con Georges Simenon, il compulsive writer per eccellenza. Qualche numero: Tra il 1940 ed il 2000 ha scritto 288 romanzi, 250 storie brevi e 20 rappresentazioni teatrali. Ha venduto 240 milioni di libri e gli sono state dedicate decine di tesi universitarie.
E' noto in tutto il mondo per le inchieste del Commissario Sanantonio, che anche da noi hanno conosciuto un vasto successo soprattutto negli anni '70, quando la Mondadori le spedì in edicola a riempire il vuoto lasciato dalla conclusione della saga di Maigret. Se non le avete mai lette, fatelo: si trovano facilmente sulle bancarelle dell'usato, a riprova di quante ne sono state vendute.
I romanzi di Sanantonio si basano su trame ricche di colpi di scena, spesso inverosimili, impepate di sesso e politicamente scorrettissime, come avrebbe forse potuto scriverle un Edgar Wallace convertito all'hard-boiled school; ma la loro vera peculiarità sta nella lingua pirotecnica, zeppa di neologismi (se ne contano 15.000), nelle metafore ardite, in digressioni filosofiche sulla vita l'universo e tutto quanto, e in citazioni-prese in giro che lasciano supporre un autore molto più colto del pubblico cui, almeno all'inizio, si rivolgeva. Insomma, uno Jacovitti del poliziesco, il tipico scrittore che i critici amano riscoprire dopo averlo ignorato per anni.
Scriveva il Paese Sera: "Dard colloca le avventure del suo commissario in un tessuto della più bella tradizione: il poliziesco d'azione con tutti gli elementi costitutivi ormai divenuti canonici... ma egli svuota questi elementi della loro serietà, ne rode la carica aggressiva, mette in discussione la loro posizione di fattori di un universo preordinato, in modo che la "realtà" della finzione cade ed il lettore è coinvolto in un procedimento "consapevolmente" fittizio, in un racconto gioco."
Orbene, in un romanzo dall'emblematico titolo: "La vita privata di Walter Klozett" (che tra l'altro costituisce un punto di svolta nella saga, perché qui il commissario rassegna le dimissioni dal servizio, come - prima di lui - un altro grande personaggio della letteratura di genere), il nostro Dard abbandona a se stesso lo sviluppo della storia per una delle sue digressioni: sulla dura vita dello scrittore di gialli. Sentiamolo.

La scocciatura, nel poliziesco, è che bisogna sempre spiegare tutto: il fatto, il come, il perché, tutto preciso, senza lasciar nulla nell'ombra, senza nulla omettere, sempre alla luce del sole dato che noialtri lavoriamo nel cartesiano. Dobbiamo essere ligi alla verità ed è inclusa nel nostro contratto. Ergastolani smarriti, eccoci a spaccare le parole come fossero pietre, a incasellare parole, a intrecciare frasi, panierai di sotto-sotto-sotto letteratura abietta, inquinante, depravante, cinica, volgare, pornografica, oscena, insomma commerciale. Siamo responsabili di quello che inventiamo. Ogni gag è un boomerang che ti becchi in un angolo della faccia se non fai rigorosamente attenzione, se non hai il giusto riflesso di schivare la fine della traiettoria. Lanciare è facile. Al momento di imbracciare qualsiasi tiratore gode del beneficio dell'ammirazione. E' incontestato all'inizio della sua azione. Nessuno lo mette in dubbio finché non ha premuto il grilletto. Ma se sbaglia il bersaglio, il suo credito va alla malora. Per noialtri fessi della penna, è la stessa cosa. Terribilmente uguale. Puoi inventargli qualsiasi cosa, al lettore. La più incredibile, la più suspensosa, lui la inghiotte, contento, un vero struzzo. Glaup! Sennonché, non credere che la digerisca. E' un ruminante, quel piffero. Piazza tutto su un calcolatore elettronico, ti aspetta al varco. Se sbagli, eccoti carbonizzato nella sua soffitta delle meningi là dove sciabordano le meschinerie universali. Mangiata viva la tua reputazione! Annullata come un assegno a vuoto!

Era o no un genio, il buon Dard? Dovrebbero metterlo all'ingresso delle scuole di scrittura creativa, questo pezzo.

giovedì 20 dicembre 2007

Come si scrive un romanzo di genere?

Ma i manuali di scrittura creativa servono? Esattamente non lo so: forse, non più di quanto "serva" il Kamasutra. Di certo, non basta il Kamasutra per diventare Rocco Siffredi, su questo siamo tutti d'accordo.
Però leggere il Kamasutra è divertente (e per certuni illuminante), così come è divertente (e per certuni illuminante) leggere alcuni manuali di scrittura creativa.
E' difficile divertire con la scrittura creativa: dopotutto, si tratta di fornire indicazioni riguardo la parte più faticosa del processo di scrittura, quello che si fa col sedere (cioè, stando materialmente inchiodati alla scrivania, un po' come si obbligava a fare l'Alfieri). Eppure, ci si può riuscire: lo dimostra "Come si scrive un romanzo di genere" di Massimo Mongai, uscito da poco per i tipi Omero.
Preciso che conosco Mongai da anni e che apparteniamo entrambi a quel gruppo di scrittori di mystery aggregatosi sotto "RomaGialloFactory", oltre ad aver vinto entrambi il Premio Urania (e Massimo ci è rimasto molto male quando ho vinto anche il Tedeschi, perché contava di vincerlo prima lui): e tuttavia cercherò di essere obiettivo, come lo fu Carlo Emilio Gadda quando si trovò a recensire un libro dell'amico Bonaventura Tecchi (lo rovinò letteralmente: ma di questo, a suivre).
Il manuale di Mongai parla soprattutto di Mongai: nel senso che racconta come scrive Mongai (e Mongai scrive e parla tanto, credetemi), cioè uno scrittore in carne (tanta) e ossa che è anche un gran personaggio di finzione, un Gideon Fell della Garbatella, un Orson Welles della Metro B, le cui lezioni di scrittura creativa diventano happening (cercatelo su YouTube). Naturalmente c'è tutta la parte noiosa di cui parlavo sopra, il soggetto, la scaletta, la scheda dei personaggi, il piano di lavoro, come si fanno le ricerche etcetera; ma lardellata di esempi concreti, presi spesso dalla sua diretta esperienza, e di esercizi che sembrano piuttosto sfide al lettore. C'è anche un'introduzione alla letteratura di genere, nella quale Mongai dà sfoggio della sua vis polemica e del suo essere politicamente scorrettissimo. Sentite qui:

... Troppo spesso cattivi scrittori e pessimi editori cercano di gabellare per genere quello che non lo è. Gli scrittori che lo fanno lo fanno quasi sempre per il migliore dei motivi: non sanno scriverlo un giallo vero, o quel che sia di qualsiasi genere. Non conoscono e non sanno applicare le regole. Non è che non vogliono (come spesso sostengono), non sanno: se sapessero farebbero; e se fanno altro, se quel che fanno, come sono loro i primi a dire, "non è solo un giallo" o "non è solo fantascienza", allora perché chiamare quel che fanno con un nome che non gli spetta? La macchinetta, il meccanismo del giallo, è difficile da scrivere. "Mettere un morto ammazzato al terzo capitolo, che ci vuole?", ho sentito dire questa imbecillità più di una volta. [Una di queste volte c'ero anch'io, è accaduto due anni fa e Mongai ancora trasuda bile al ricordo, giuro.] Mettere un morto ammazzato al terzo capitolo in modo coerente, con il meccanismo completo, plausibile e coerente fino alla fine è difficilissimo: prima ce lo metti poi mi dici che non ce lo vuoi mettere, e per cortesia non mi dire che mi stai vendendo un noir solo perché le atmosfere sono quelle.

Divertente, dunque. E illuminante? Bè, io sono rimasto colpito quando Mongai parla dell'essenza della storia, del racconto. Siccome sono un po' snob e me la tiro, in questo frangente lustro il monocolo e sfodero Franco Ferrucci e la sua teoria secondo cui, dai tempi di Omero, non facciamo che raccontare dell'assedio o del ritorno. Mongai no: lui tira fuori la vecchia canzone di Casablanca, "As Time Goes By"... ed è una sorpresa e un pezzo di bravura. Conosco quella canzone a memoria, da vecchio sinatrologo, eppure non avevo mai pensato che potesse essere interpretata a questo modo!
Su una cosa però non sono d'accordo. Mongai sostiene spesso, e lo fa anche in apertura di manuale, che "un buon romanzo giallo è prima di tutto un buon romanzo". Questo è un artificio retorico. Allo stesso modo, si potrebbe sostenere che un buon film porno è prima di tutto un buon film. In realtà, l'aggettivo "buono" ha una valenza diversa nei due casi, poiché il cervello è (in genere) molto più elastico delle parole che utilizza.

mercoledì 5 dicembre 2007

Smontare il meccanismo

Comincio a gettare il seme di una discussione che mi sta a cuore: e cioè che quel che caratterizza un'opera d'arte è la forma. E quindi, anche un buon romanzo.
Per far questo, lascio la parola a due scrittori: Stevenson e Poe. A distanza di anni, infatti, i due hanno detto cose molto simili.
Ecco Poe, in "La filosofia della composizione":

Molti scrittori preferiscono far credere che compongono con una specie di sottile frenesia o estatica intuizione, e certo rabbrividirebbero se dovessero consentire al pubblico di dare un'occhiata dietro la scena e vedere le ruote e i rocchetti, i paranchi per il cambiamento di scena, le scale e le trappole... tutto l'equipaggiamento che 99 volte su 100 costituisce la prassi comune dell'histrio letterario.

Gli fa eco Stevenson, in "Alcuni elementi tecnici dello stile nella letteratura" (titolo che è tutto un programma):

Non c'è effetto più smagante per l'uomo del mettere a nudo le molle e i meccanismi di qualunque arte. Ogni nostra arte o mestiere svolge il proprio incantamento in superficie: è in superficie che ne percepiamo la bellezza, la pregnanza, il significato. A grattar sotto, restiamo sempre sgomenti del vuoto, e sbalorditi dinnanzi alla rude congerie di funi e di pulegge...

Se avessimo la capacità di scoprire l'origine di quegli artifici, impiegati più o meno consapevolmente, che riteniamo poco dignitosi per un artista serio, ne trarremmo indicazioni sulla raffinatezza del senso molto più sottili di quanto crediamo, nonché un lontano riverbero delle antiche armonie della natura...

Devo avvertire quel ben noto personaggio che è il lettore comune che, in queste pagine, mi sono imbarcato in un'impresa sgradevole: quella di staccare il dipinto dalla parete per scrutare dietro la tela o, come il bambino armeggione, di smontare il balocco sonoro per vedere com'è fatto dentro.

Non voglio certo arguire, sulla scorta di queste autorevoli valutazioni, che la letteratura e le altre arti siano riducibili a pura meccanica: ma solo che lo scrittore non scrive le proprie opere in pieno, e cieco, furore creativo. E se è vero che, più in là, parlerò anzi di come molti scrittori lavorino spesso a livello inconscio (lo stesso Stevenson affermerà questo), credo comunque che non esista contraddizione: solo dopo aver appreso le tecniche, infatti, l'artista può lavorare a livello inconscio. Bisogna imparare il mestiere per poter lavorare, con successo, a livello inconscio.
Provate a scendere le scale badando a mettere un piede avanti all'altro, e cadrete.
Ma provate a scendere le scale senza saper camminare: non ve la caverete molto meglio.