Massimo Pietroselli: romanzi e antologie

mercoledì 27 febbraio 2008

Come scrivo un romanzo: Wodehouse

Un articolo di Repubblica del 24 gennaio scorso (Il benessere? Viene dal buonumore -In tanti con lo "Yoga della risata") racconta lo sviluppo di una nuova disciplina, lo Yoga della Risata appunto. Inizia così: "Ridono senza un motivo per migliorare il proprio benessere fisico e psicologico, si riuniscono in tutto il mondo intorno a cinquemila e cinquecento centri specializzati che vanno dalla Thailandia alla Svezia, dal Giappone all'Italia e la prima domenica di maggio di ogni anno festeggiano la loro giornata mondiale. Chi sono?"
Io un'idea ce l'avrei, ma la tengo per me. Non ho però idea se questi sghignazzatori conoscano Pelham "Plum" Grenville Wodehouse (1881-1975), uno dei più fini scrittori umoristici prodotti dalla Gran Bretagna, e i suoi personaggi, dal maggiordomo Jeeves a Ukridge fino all'Imperatrice di Blandings: forse no, altrimenti un motivo per ridere l'avrebbero, e allora che fine farebbe la disciplina?
Wodehouse è un altro scrittore compulsivo, come Simenon e Dard, di cui ho parlato in precedenza. Nella sua lunga vita ha scritto un centinaio di romanzi, trenta lavori teatrali e una ventina di sceneggiature per il cinema. Inoltre, è stato paroliere per celebri musicisti. Senza aderire ad alcun Centro della Risata, mantenne sempre un umore allegro: durante la Seconda Guerra Mondiale, fu internato in un campo di concentramento tedesco, nel quale scrisse un romanzo - umoristico, ovviamente. Ingenuamente, accettò di parlare delle condizioni di prigionia dai microfoni della radio nazista: lo fece con tono leggero, fu accusato di tradimento, difeso da George Orwell e decise che non sarebbe mai tornato in Inghilterra - dove, del resto, non viveva più già da vent'anni.
A novantun anni ("Novantuno e mezzo! Novantadue a ottobre" precisava con civetteria) rilasciò alla "Paris Review" (nella serie "The Art of Fiction") un'intervista, in cui parla della sua attività di romanziere. Eccone alcuni brani.

Qual è la sua giornata tipo lavorativa, adesso?
Comincio ancora alle sette e mezza. Faccio la mia quotidiana dozzina di esercizi, colazione e vado nel mio studio. Quando mi trovo tra due libri, come ora, siedo in poltrona, penso e prendo appunti. Prima di cominciare un romanzo, raccolgo circa quattrocento pagine di annotazioni, per lo più incoerenti. Ma arriva sempre il momento in cui mi accorgo che un romanzo sta per iniziare. Riesco più o meno a vedere come si sviluppa. Tutto il resto è questione di dettagli.

Quindi lei predispone tutto in anticipo?
Sì. Per un romanzo umoristico devi avere uno "scacchiere" definito e testarlo, così da capire quando e dove si sviluppa la commedia... separarlo in diverse scene (puoi ricavare una scena da praticamente tutto) e lasciare tra loro meno "fuffa" possibile.

E' davvero possibile sapere dove si trova qualcosa di divertente in un preciso punto dello "scacchiere"?
Certo, anche se poi, nello sviluppo della storia, non gli rimani fedele. Non credo di essere mai rimasto fedele a uno scenario. Quando ho una scaletta ben definita, posso lavorare indefessamente. Lavoro al mattino, poi vado a fare una passeggiata, poi ricomincio a scrivere. Non lavoro mai dopo cena. Sono le scalette, la difficoltà: ci vuole un sacco di tempo per metterle a punto. Mi piace pensare ad alcune scene specifiche, non importa quanto assurde o improbabili, e poi lavorare avanti e indietro per giustificarle nella storia.

Corregge spesso? Fa molte revisioni?
Sì. E spessissimo mi accorgo che qualcosa andava in un altro posto: una scena che ho messo nel capitolo due mi accorgo, al capitolo dieci, che sta meglio qui, adesso.

Se dovesse dare un consiglio a uno scrittore di romanzi umoristici, cosa direbbe?
Arrivare al dialogo il prima possibile. Niente mette fuori uso il lettore più di una gran pennellata di prosa proprio all'inizio. Credo che il successo di un romanzo - se è un romanzo di azione - dipenda dai punti forti. Ti devi chiedere: "Quali sono le scene madri?" e quindi spremere ogni goccia di succo da loro. Io penso ai personaggi come ad attori sul palcoscenico. Mi dico: se un grande attore avesse questo ruolo, e capisse che dopo un forte primo atto non avesse praticamente nulla da fare per tutto il secondo, bè se ne andrebbe. Come posso dargli da fare per tutta la recita?

Si è mai arrabbiato con i critici? Ha mai pensato che fossero poco gentili?
No, mai. Non si può piacere a tutti.

Che ne pensa dei Beats? Qualcuno come Jack Kerouac, per esempio, che è morto qualche anno fa?
Jack Kerouac è morto! Davvero?

Sì.
O Dio. Non fanno che morire, vero?

martedì 12 febbraio 2008

L'intelligenza della forma

Meccanismi, meccanismi... in fondo il problema è tutto qui.
Avete una visione olistica o riduzionistica della Letteratura?
Qual è la sede del godimento artistico? Il cuore, il cervello o, come sosteneva il solito burlone di Nabokov, un punto in mezzo alle scapole?
La risposta, ve la preannuncio, è: "42".
(se non sapete a cosa mi riferisco, peggio per voi.)
Mentre queste domande incombono, di seguito riporto un articoletto uscito sul numero 94 di Vibrisse, a firma Giovanna Zoboli. Si intitola "L'intelligenza della forma" e mi sembra un chiarissimo contributo ai concetti di meccanismo, di costruzione, di artificio lettario che tanto piacciono a un modesto scrittore di formazione ingegneristica come il sottoscritto.

Una ventina d’anni fa, nelle sale della Triennale (esposizione milanese di arti industriali), ricordo l’incontro con un oggetto stupefacente: una gigantesca macchina il cui unico scopo era far muovere una biglia d’acciaio. Scivoli, piani, rotaie, ponti, scalette, tubi, altalene dislocati ad arte perché la pallina procedesse lungo un movimentato e complesso percorso. Il meccanismo funzionava sfruttando pesi, dislivelli, velocità e attriti, secondo le leggi della dinamica e della fisica. La gente, me compresa, si affollava intorno alla macchina e, in perfetto silenzio, rapita e concentrata, fissava il corpo metallico in movimento.
È l’unica cosa che ricordo di quella Triennale. Ma ricordo anche la ragione per cui tale memoria è durata fino a oggi. La macchina mi parve una metafora perfetta dei meccanismi narrativi. Quell’oggetto era una storia. Attraverso un sofisticato marchingegno, raccontava le vicende della sua protagonista: una biglia che – sebbene d’acciaio e pertanto non dotata di sentimenti, raziocinio e volontà – nel compiere il suo percorso mostrava una personalità spiccatissima. Aveva, infatti, indugi, arditezze, pigrizie, regressioni, slanci, depressioni, fin anche rabbie, ripensamenti e collere. O, almeno, procedeva così abilmente lungo la sua strada, da suggerire agli osservatori questa intera gamma di emozioni.
Questa macchina si sarebbe potuta definire “altamente credibile”. Non per niente mi è tornata alla mente leggendo gli interventi sul “farsi credere” di questi ultimi numeri.
Ma dal punto di vista della credibilità della storia, non credo che a uno scrittore sia necessario sapere ogni dettaglio della materia di cui scrive. Credo sia, in qualche modo, illusorio pensare che il possesso di tutte le informazioni serva, in sé, a costruire un testo capace di farsi leggere da cima a fondo.
In sostanza, la credibilità non è determinata dall’eventuale, comprovata verità o verosimiglianza dei contenuti di un testo. Credo che si tratti di qualcosa che con la verità o la verosimiglianza ha molto a che fare, ma in un modo più complesso e sottile di un rapporto diretto; in un modo anche sfuggente, direi, non del tutto controllabile dallo scrittore.
In qualche modo, la credibilità è uno degli attributi fondamentali non solo della letteratura, ma di tutte quelle particolari realizzazioni umane che per comodità mettiamo sotto il nome di “arte”. Per quanto mi riguarda, penso che la credibilità sia una sorta di “intelligenza della forma”.
Non di rado chi scrive ha l’impressione di risolvere un problema di logica matematica, anche se magari sta scrivendo solo una brochure aziendale. Non credo che la logica sottesa alle strutture del linguaggio si allontani molto dalla complessità e dal rigore della matematica. Ho avuto spesso questa impressione, mentre scrivevo: forse l’impressione sopra descritta di aver scritto una cosa “vera”, nonostante la consapevolezza della sua natura del tutto fantastica, deriva proprio da questo. Il linguaggio possiede una sua profonda intelligenza, che lo scrittore deve imparare a conoscere e a utilizzare.
Non credo che creare una forma intelligente, dotata in massimo grado dell’attributo della credibilità, sia qualcosa di molto diverso da quello che facevamo da bambine, giocando alla settimana enigmistica o guardando il cielo notturno, d’estate. In entrambi i casi, si tratta di stabilire nessi di senso profondo fra le cose. Stabilire vincoli di necessità tra elementi che magari appaiono uniti, ma in modo inesplicabile e misterioso, o addirittura sembrano lontanissimi fra loro, del tutto inconciliabili. Il linguaggio è uno strumento prodigioso, in questo senso. È come la matita che compone il disegno nascosto. O come l’occhio, che compone le linee che collegano stelle lontanissime fra loro, formando il disegno, del tutto arbitrario, ma assolutamente vivo, vero e pulsante di significato, delle costellazioni. Una sorta di meravigliosa macchina per stanare significati.
Viene allora un sospetto: e se fosse la biglia a descrivere il funzionamento della macchina anziché la macchina a raccontare la storia della biglia? Che siano tutt’e due le cose insieme? La cosa non è affatto improbabile.

Una precisazione: ma perché diavolo in questo blog lascio sempre la parola ad altri? Non certo per la passione dell' "ipse dixit".
E' solo che è così faticoso scrivere cose già dette da altri...
L'originalità, dopotutto, è una virtù decisamente sopravvalutata.