Massimo Pietroselli: romanzi e antologie

martedì 12 febbraio 2008

L'intelligenza della forma

Meccanismi, meccanismi... in fondo il problema è tutto qui.
Avete una visione olistica o riduzionistica della Letteratura?
Qual è la sede del godimento artistico? Il cuore, il cervello o, come sosteneva il solito burlone di Nabokov, un punto in mezzo alle scapole?
La risposta, ve la preannuncio, è: "42".
(se non sapete a cosa mi riferisco, peggio per voi.)
Mentre queste domande incombono, di seguito riporto un articoletto uscito sul numero 94 di Vibrisse, a firma Giovanna Zoboli. Si intitola "L'intelligenza della forma" e mi sembra un chiarissimo contributo ai concetti di meccanismo, di costruzione, di artificio lettario che tanto piacciono a un modesto scrittore di formazione ingegneristica come il sottoscritto.

Una ventina d’anni fa, nelle sale della Triennale (esposizione milanese di arti industriali), ricordo l’incontro con un oggetto stupefacente: una gigantesca macchina il cui unico scopo era far muovere una biglia d’acciaio. Scivoli, piani, rotaie, ponti, scalette, tubi, altalene dislocati ad arte perché la pallina procedesse lungo un movimentato e complesso percorso. Il meccanismo funzionava sfruttando pesi, dislivelli, velocità e attriti, secondo le leggi della dinamica e della fisica. La gente, me compresa, si affollava intorno alla macchina e, in perfetto silenzio, rapita e concentrata, fissava il corpo metallico in movimento.
È l’unica cosa che ricordo di quella Triennale. Ma ricordo anche la ragione per cui tale memoria è durata fino a oggi. La macchina mi parve una metafora perfetta dei meccanismi narrativi. Quell’oggetto era una storia. Attraverso un sofisticato marchingegno, raccontava le vicende della sua protagonista: una biglia che – sebbene d’acciaio e pertanto non dotata di sentimenti, raziocinio e volontà – nel compiere il suo percorso mostrava una personalità spiccatissima. Aveva, infatti, indugi, arditezze, pigrizie, regressioni, slanci, depressioni, fin anche rabbie, ripensamenti e collere. O, almeno, procedeva così abilmente lungo la sua strada, da suggerire agli osservatori questa intera gamma di emozioni.
Questa macchina si sarebbe potuta definire “altamente credibile”. Non per niente mi è tornata alla mente leggendo gli interventi sul “farsi credere” di questi ultimi numeri.
Ma dal punto di vista della credibilità della storia, non credo che a uno scrittore sia necessario sapere ogni dettaglio della materia di cui scrive. Credo sia, in qualche modo, illusorio pensare che il possesso di tutte le informazioni serva, in sé, a costruire un testo capace di farsi leggere da cima a fondo.
In sostanza, la credibilità non è determinata dall’eventuale, comprovata verità o verosimiglianza dei contenuti di un testo. Credo che si tratti di qualcosa che con la verità o la verosimiglianza ha molto a che fare, ma in un modo più complesso e sottile di un rapporto diretto; in un modo anche sfuggente, direi, non del tutto controllabile dallo scrittore.
In qualche modo, la credibilità è uno degli attributi fondamentali non solo della letteratura, ma di tutte quelle particolari realizzazioni umane che per comodità mettiamo sotto il nome di “arte”. Per quanto mi riguarda, penso che la credibilità sia una sorta di “intelligenza della forma”.
Non di rado chi scrive ha l’impressione di risolvere un problema di logica matematica, anche se magari sta scrivendo solo una brochure aziendale. Non credo che la logica sottesa alle strutture del linguaggio si allontani molto dalla complessità e dal rigore della matematica. Ho avuto spesso questa impressione, mentre scrivevo: forse l’impressione sopra descritta di aver scritto una cosa “vera”, nonostante la consapevolezza della sua natura del tutto fantastica, deriva proprio da questo. Il linguaggio possiede una sua profonda intelligenza, che lo scrittore deve imparare a conoscere e a utilizzare.
Non credo che creare una forma intelligente, dotata in massimo grado dell’attributo della credibilità, sia qualcosa di molto diverso da quello che facevamo da bambine, giocando alla settimana enigmistica o guardando il cielo notturno, d’estate. In entrambi i casi, si tratta di stabilire nessi di senso profondo fra le cose. Stabilire vincoli di necessità tra elementi che magari appaiono uniti, ma in modo inesplicabile e misterioso, o addirittura sembrano lontanissimi fra loro, del tutto inconciliabili. Il linguaggio è uno strumento prodigioso, in questo senso. È come la matita che compone il disegno nascosto. O come l’occhio, che compone le linee che collegano stelle lontanissime fra loro, formando il disegno, del tutto arbitrario, ma assolutamente vivo, vero e pulsante di significato, delle costellazioni. Una sorta di meravigliosa macchina per stanare significati.
Viene allora un sospetto: e se fosse la biglia a descrivere il funzionamento della macchina anziché la macchina a raccontare la storia della biglia? Che siano tutt’e due le cose insieme? La cosa non è affatto improbabile.

Una precisazione: ma perché diavolo in questo blog lascio sempre la parola ad altri? Non certo per la passione dell' "ipse dixit".
E' solo che è così faticoso scrivere cose già dette da altri...
L'originalità, dopotutto, è una virtù decisamente sopravvalutata.

Nessun commento: