Massimo Pietroselli: romanzi e antologie

giovedì 30 ottobre 2008

L'arte della creatività

Si può insegnare ad essere creativi?
Si può sviluppare la propria creatività?
Esiste, insomma, un'Arte della Creatività come esiste un'Arte della Memoria? Oppure è per definizione impossibile, come impossibile è l'Arte del Dimenticare (o Ars Oblivionalis)?
Nel numero di giugno-luglio scorso, su "Scientific American Mind" è apparso un confronto tra esperti sull'argomento, dal titolo "Let Your Creativity Soar". Emerge che la creatività, come l'intelligenza, non è caratteristica di particolari individui, ma di tutti: semmai, c'è chi ne ha di più e chi di meno, e questo dipende dallo sviluppo individuale piuttosto che da una fortunata combinazione genetica. Il che significa che alla terribile domanda: "Ma dove prendete le idee?" si può rispondere: "Dove le prendono tutti!"
In particolare, tutti i bambini sono creativi: inventano giochi, imparano ben presto a dire bugie, disegnano, sviluppano personalissime paure al buio della propria cameretta... poi vanno a scuola. E pian piano imparano a stare seduti, a seguire l'insegnante senza perdersi in sogni a occhi aperti e a non fare domande sciocche. Socializzazione, insomma. Così, va a finire (dicono gli esperti) che la creatività viene lasciata agli spostati, a quelli che non socializzano, agli individualisti.
Ma non preoccupatevi, bambini inariditi: potete recuperare questa qualità, se solo lo volete. E prima di tutto, potete scoprire quanto siete creativi con un test, il Test di Epstein che, se conoscete l'inglese, potete svolgere qui.
Ecco quattro tecniche presentate nel corso dell'articolo.
La prima è Catturare: cogliere al volo le idee quando si propongono alla nostra attenzione e conservarle, senza giudicare la loro bontà. Questo dettaglio è molto importante: se cominciamo a sottoporre a critica un'idea appena abbozzata, in un certo senso ne compromettiamo la generazione. L'auto-censura distrugge il processo creativo.
La seconda è Sfidarsi: poniamoci dei problemi, delle domande.
La terza è Ampliare: maggiori sono le nostre conoscenze, maggiori sono le possibili interconnessioni. Imparare cose nuove aiuta a far emergere nuove idee, nuovi spunti.
La quarta, direttamente connessa alla precedente, è Sviluppare il proprio ambiente: non frequentiamo sempre le stesse persone, gli stessi posti. Apriamoci al mondo. Conosciamo altri modi di vivere, altre culture, altra cucina, altri paesi.
E infine, camminiamo. Pare che facendo quattro passi il cervello cominci a integrare le diverse intuizioni, frammenti di idee e sensazioni ricevuti utilizzando le quattro tecniche di cui sopra.
Oppure facciamo un bel bagno: ad Archimede ha portato una buona intuizione. E Agatha Christie congegnava i suoi delitti di carta a mollo nella vasca, mangiando mele.Se non saremo più creativi, almeno saremo profumati e faremo a meno del medico.

venerdì 5 settembre 2008

L'atto simultaneo dell'immaginazione

William Somerset Maugham (1874-1965) è stato autore di grande successo. Il suo periodo d'oro furono gli anni '30-'40 del secolo scorso, ma ancora oggi i suoi romanzi vengono ristampati (in Italia, da Adelphi), e recentemente da "Il velo dipinto" è stata tratta una nuova riduzione cinematografica, dopo quella con Greta Garbo nei panni della moglie adultera.
La sua è una prosa da narratore di razza, di quelli che avendo visto il mondo e conosciuto l'umanità in situazioni estreme non perdono tempo a raccontare del proprio ombelico; a volte arricchita da humour inglese; spesso da un certo cinismo nel commentare le miserie umane; sempre da un certo distacco, lo stesso distacco del pittore che si allontana dal quadro che sta dipingendo per studiarlo nella giusta prospettiva. I suoi occasionali aforismi a commento di certe situazioni, che sembrano trinciati dalla poltrona di un club per soli uomini, lasciano supporre che si infischiasse della teoria del narratore nascosto. D'altronde, come ebbe a scrivere:

Ogni convenzione ha i suoi svantaggi. Che bisogna mascherare il più possibile - e quando mascherarli non si può, tanto vale ammetterli apertamente.

Spesso, Maugham introduce i suoi romanzi con un tono colloquiale e fascinoso che mescola riferimenti al testo, ricordi personali e considerazioni sulla vita e la letteratura. Ad esempio, scopriamo nella prefazione a "Il velo dipinto" che la trama del romanzo gli è stata suggerita, anni prima, dalla lettura dei versi di Dante su Pia de' Tolomei. Da qui, Maugham passa a ricordare i suoi giovanili giorni trascorsi a Firenze, la sua affittuaria, il gusto del Chianti, le circostanze in cui venne a conoscenza di quei versi e come e perché solo parecchi anni dopo quell'idea si fosse trasformata in romanzo. Dopo di che, riflette come tra sé che quello è stato il solo caso in cui una trama gli è stata suggerita da un intreccio piuttosto che da un personaggio. E qui arriviamo al punto.
Uno degli argomenti più gettonati nelle scuole e nei manuali di scrittura creativa è questo: viene prima il personaggio o la storia? (come se la fantasia dovesse procedere come i sillogismi di Aristotele, dalle premesse alla conclusione...) Come al solito, in questo caotico blog ci si limita a proporre quel che ha dire sull'argomento questo o quello scrittore professionista. E sentire Maugham è sempre interessante, tanto che presto verrà riutilizzato (la sua prefazione a "Ashenden" è molto stimolante!).

Spiegare la relazione tra intreccio e personaggio è difficile. Certo non si può pensare a un personaggio nel vuoto; appena lo pensi, lo pensi in qualche situazione, occupato a fare qualcosa, sicché il personaggio e almeno le linee principali del suo agire sembrano essere il risultato di un atto simultaneo dell'immaginazione.

In rete è disponibile un articolo di Maugham molto interessante, "Come scrivo i racconti". Qui si sofferma sui personaggi, il che mi sembra faccia pendant con ciò che si diceva sopra:

Com'è noto, molti di noi sostengono che quando creano un personaggio non pensano mai a un modello in carne e ossa. Secondo me si sbagliano. Non analizzano con sufficiente scrupolo i ricordi e le impressioni a partire dai quali hanno costruito le figure che amano immaginare di essersi inventate. Se lo facessero scoprirebbero che immancabilmente questo o quel personaggio - sempre che non sia, come spesso accade, preso da un altro libro - è stato ricalcato su una o più persone da loro viste o conosciute. Del resto, i grandi scrittori del passato non hanno mai nascosto che i loro fossero ritratti dal vero...
Se quello che si cerca è un personaggio credibile, con una sua individualità, la cosa migliore è avere un modello cui ispirarsi. Dal nulla, l'immaginazione non crea nulla. Le serve il pungolo di una sensazione. Se la nostra fantasia è stata colpita da una caratteristica particolare (magari solo per noi) di qualcuno, ma poi quel qualcuno lo descriviamo in un modo completamente diverso, finiamo per falsificare tutto. I personaggi hanno una loro coerenza, e se si cerca di alterarla - ad esempio trasformando un tappo in uno spilungone (come se la statura non avesse una sua influenza sul carattere), o un tipo fisicamente fatto per essere flemmatico in un iracondo - si distrugge quella che Baltasar Gracián, con un'espressione meravigliosa, chiamerebbe la sua plausibile armonia.

lunedì 28 luglio 2008

Forma e sostanza

La struttura determina le proprietà chimico-fisiche delle molecole. E' un po' come dire che la forma determina la sostanza (vedi l'articolo sull'intelligenza della forma).
D'altra parte, può esistere una forma senza sostanza, ma non può esistere una sostanza senza forma.
Quando Martin Eden decide di produrre racconti "alimentari", da bravo apprendista comincia ad analizzare quelli pubblicati sulle riviste specializzate. Ecco cosa scopre a proposito delle novelle "rosa" (uno dei genere letterari più venduti, ben più dei gialli o della fantascienza):

La ricetta consisteva in tre parti:a) una coppia di innamorati viene brutalmente separata; b) un fatto o un avvenimento qualsiasi li riunisce; c) campane nuziali. Il terzo componente era una quantità fissa, ma il primo e il secondo potevano variare all’infinito. In tal guisa, la coppia di innamorati poteva venir divisa da motivi di incomprensione, da capricci della sorte, da rivali gelosi, da genitori irati, da scaltri tutori, da parenti intriganti eccetera; potevano venir riuniti da un atto d’amore dell’innamorato, da un atto analogo dell’innamorata, da un mutamento del cuore dell’uno e dell’altra, da una forzata confessione dello scaltro tutore, o del parente intrigante, o del geloso rivale; dalla confessione volontaria degli stessi, dalla scoperta di un segreto insospettato, dall’arrembaggio al cuore della fanciulla da parte dell’innamorato, e via discorrendo, all’infinito. Era molto efficace che la dichiarazione d’amore avvenisse da parte della fanciulla, mentre aveva luogo la riconciliazione e, un pezzetto per volta, Martin scoperse altre astuzie decisamente piccanti ed efficaci. Ma le campane nuziali alla fine erano l’unica cosa con cui non era possibile prendersi alcuna libertà… quanto alla quantità, la ricetta prescriveva una dose minima di 1200 parole e una massima di 1500.

Abbiamo già visto come Narcejac riduca la struttura del giallo a un triangolo, ai cui vertici sono la vittima, l'assassino e l'investigatore.
Anche il romanzo di spionaggio ha le sue regole. Umberto Eco ha esaminato i romanzi di 007 trovandovi alla base una struttura in "otto mosse:"

Lo schema invariante è il seguente:
A) M muove e dà incarico a Bond
B) Cattivo muove e appare a Bond (eventualmente in forma vicaria)
C) Bond muove e dà un primo scacco al Cattivo – oppure Cattivo dà primo scacco a Bond
D) Donna muove e si presenta a Bond
E) Bond mangia Donna: la possiede o ne inizia la seduzione
F) Cattivo cattura Bond (con o senza Donna, o in momenti diversi)
G) Cattivo tortura Bond (con o senza Donna)
H) Bond batte Cattivo (lo uccide, o ne uccide il vicario, o ne assiste all’esecuzione)
I) Bond convalescente si intrattiene con Donna, che poi perderà
Fleming rinuncia di fatto alla psicologia come motore narrativo e decide di trasferire caratteri e situazioni a livello di una oggettiva e convenzionata strategia strtturale… passa dal metodo psicologico a quello formale.

mercoledì 18 giugno 2008

Le presentazioni dei libri

E' un fatto che, al giorno d'oggi, è prassi che i libri vengano presentati. Lo scrittore si è trasformato in un attore, e più è bravo più richiama l'attenzione sulla propria opera: la gente compra l'autore, più che il libro.
Ma non è sempre stato così.
Una volta non esistevano i generi letterari, almeno nulla di paragonabile alla scientifica segmentazione odierna.
Bè, una volta non esistevano nemmeno le presentazioni dei libri.
Leggendo "La vita di Sir Arthur Conan Doyle" di John Dickson Carr, ho appreso che il papà di Sherlock Holmes (il quale si seccava di essere imparentato a questo personaggio!), nel 1897 ebbe uno scontro con uno scrittore, Hall Caine, che aveva da poco pubblicato "Il cristiano", accompagnandone l'uscita con metodi di marketing moderno.
Scrisse subito una lettera vibrante (Doyle scriveva lettere dalla mattina alla sera), pubblicata sul Daily Chronicle. La riporto perché rappresenta un modo di pensare, di essere, di vivere oggi scomparso.

Allorché il signor Kipling scrive un poema come il suo "Cantico", non mette in piazza quel che pensa o che cosa lo abbia spinto a scriverlo. Allorché il signor Barrie ci dà un'opera bella come "Margaret Ogilvie", non c'imbattiamo in lunghe interviste e spiegazioni propagandistiche che ne preannunciano la pubblicazione. Basta la loro perfezione artistica a raccomandare poema e racconto al lettore provveduto, e sono le normali agenzie pubblicitarie a presentarne i meriti al grosso pubblico. Come uomo di lettere vorrei pregare il signor Hall Caine di adottare gli stessi metodi...
Il libro del signor Hall Caine non è ancora apparso (quando apparirà gli augurerò di cuore il miglior successo) ma ritengo indegno della nostra professione comune che non si possa prendere in mano un giornale o una rivista senza leggervi i commenti personali del signor Caine sul compito gigantesco e sull'opera colossale da lui testé portati a conclusione, con minuti particolari delle varie fasi e delle innumeri difficoltà da lui superate. Tocca ad altri dire queste cose, che diventano ridicoli e offensive quando siamo noi a esprimerle. Tutti i libri del signor Caine sono stati autostrombazzati allo stesso modo.
In tutte le professioni colte, si tratti di diritto, della medicina, dell'arte militare o della letteratura, esistono alcune leggi non scritte: un'etichetta di nobiltà che ci impegna tutti quanti, e in particolar modo i capi delle varie professioni. Quale effetto negativo potrà avere questo andazzo sugli scrittori giovani?


Già. Quale?

lunedì 9 giugno 2008

L'inconscio, il cuoco e lo scrittore

La domanda che tutti gli scrittori temono è: ma dove trovi le idee?
Isaac Asimov rispondeva che le idee sono così facili da trovare che si pagano un tanto la dozzina: ma il Buon Dottore era un caso particolare, come testimonia la sua sterminata produzione. E in realtà è vero che una storia si può trarre da qualunque spunto: il problema è piuttosto organizzare la narrazione, costruirla. Ed è altrettanto vero che questi "spunti" li abbiamo tutti, solo che lo scrittore è più pronto a individuarli, a dar retta alle spinte della fantasia, ad assecondarle.
D'altra parte, le idee non si trovano: ti vengono. E da dove? Ma dall'inconscio, che domande!
Piluccando tra le interviste e gli appunti degli scrittori, due analogie per l'attività creativa ricorrono curiosamente: il pozzo - la cantina (ovvero l'inconscio) e la cucina. Sì, la cucina.
Ecco per esempio Graham Greene parlare di una cantina che ospita un personaggio ai suoi servizi (da"Vie di scampo"):
L'inconscio collabora a tutte le nostre opere: è un nègre che teniamo in cantina affinché ci aiuti. Quando un ostacolo sembra insormontabile, leggo il lavoro fatto durante il giorno, prima di addormentarmi, e lascio che sia il nègre a faticare in mia vece. Quando mi sveglio, l'ostacolo è stato quasi sempre rimosso: ecco la soluzione, e ovvia per giunta... forse è venuta in un sogno che ho dimenticato.
Per far lavorare il nègre, Ernest Hemingway consigliava di stancarsi fisicamente, far ginnastica o l'amore: ma questo dipende, suppongo, dal suo vitalismo.
In "Festa Mobile", Hemingway parla di pozzo, invece che di cantina: ma la sostanza non cambia.
Avevo già imparato a non vuotare mai il pozzo della mia fantasia, ma a fermarmi sempre quando c'era ancora qualcosa, là in fondo, e a lasciare che tornasse a riempirsi durante la notte con l'acqua delle sorgenti che lo alimentavano.
Là in fondo, le sorgenti che lo alimentano durante la notte, il nègre in cantina: bellissime suggestioni sul mistero della creatività.

Quanto alla cucina, ecco cosa scriveva Robert Louis Stevenson a W. Craibe Angus:
Sono ancora un lentone, e covo a lungo in silenzio le mie uova. Pensiero inconscio, ecco l'unico sistema; macerate il soggetto, fatelo bollire lentamente, alzate il coperchio e guardate. Il piatto è pronto, buono o cattivo che sia.
"Bollire" come sinonimo di coltivare un'intuizione, un'idea? La pensa così anche Greene, che nell'introduzione a "I commedianti" scrive:
Una caratteristica fisica, un modo di esprimersi, un aneddoto... tutto ciò viene fatto bollire nella cucina del subcosciente e, nella maggior parte dei casi, emerge irriconoscibile anche per il cuoco.
Insomma, lo scrittore è un cuoco che ha scarso potere sulla riuscita del piatto?

giovedì 8 maggio 2008

L'esotismo della Storia

Il romanzo storico conosce oggi una rinnovata popolarità, in particolare nel mystery e nel suspense, e anche nella fantascienza c'è una forte presenza di romanzi ucronici. Senza parlare del sottogenere dello steam-punk, dove si immagina un'Inghilterra vittoriana diversa e tecnologicamente evoluta.
Uno dei motivi è l'Esotismo, tipico elemento della letteratura di genere: esotismo temporale invece che di luogo (c'è un'ampia scelta di background, venti e passa secoli!); ma anche esotismo biografico (la possibilità di far vivere personaggi storici in situazioni particolari o bizzarre).
Un altro, è il Mistero della Storia: il romanziere può riferirsi a migliaia di eventi storicamente mai chiariti, per usarli come base di un "plot" accattivante. E se gli storici storcono il naso, pazienza: come diceva Dumas, uno che dell'argomento se ne intendeva, "La storia è un chiodo cui appendo il quadro del mio romanzo."
Inoltre, la Storia può fungere da cartina da tornasole: parlo del passato, ma in realtà parlo dell'oggi, e anzi, lo inquadro in una prospettiva profonda e più ampia. Leggete o rileggete "I pugnalatori" di Leonardo Sciascia, ad esempio.
Per dirla con Giulio Leoni, la Storia è un po' come un quadro divisionista: se lo vediamo da lontano, ne capiamo la forma, il senso, ma se ci avviciniamo, si rivela come un aggregato di puntini separati, insignificanti, misteriosi. Nello spazio tra un puntino e l'altro il romanziere può infilarsi, farci la tana come un verme, elaborare una trama, evocare un passato che non ha la pretesa di essere "realistico", ma semplicemente plausibile.

A Karen Blixen, l'intervistatore della Paris Review chiese, nel 1956: La maggior parte dei suoi racconti sono ambientati nel secolo scorso. Non scrive mai dell'oggi.
E l'autrice di "Sette storie gotiche" rispose: Sì, invece, se considera che l'epoca dei nostri nonni, quel tempo appena fuori dalla nostra portata, è così parte di noi. Noi assorbiamo molto senza rendercene conto.
Inoltre, io scrivo di personaggi che insieme formano una storia. Vede, io parto da un sapore del racconto (the flavor of the tale). Poi trovo i personaggi e loro spiccano il volo. Loro costruiscono l'intreccio, io do solo loro la libertà necessaria. Ora, nella vita e nella letteratura moderna c'è una particolare atmosfera e soprattutto un movimento interiore - ai personaggi, dico - che è qualcosa di diverso. Oggi è la solitudine il tema universale. Ma io scrivo di personaggi all'interno di un disegno, e di come essi interagiscono uno con l'altro...
Ma nelle mie storie il tempo è flessibile. Posso cominciare nel diciottesimo secolo e finire con la Grande Guerra. Questi periodi storici sono ormai ordinati, sono chiaramente visibili. Il presente è sempre in movimento, non hai la possibilità di contemplarlo tranquillamente.
Ero una pittrice prima di fare la scrittrice... e un pittore non vuole certo che il soggetto gli si muova sotto il naso; vuole fare un passo indietro e studiare il panorama con un occhio mezzo chiuso.


Il che riporta a Umberto Eco e al suo "Il nome della Rosa". Quando gli chiesero perché avesse scritto un romanzo ambientato nel passato, rispose: "Perché il passato lo conosco, il presente no."

venerdì 11 aprile 2008

Letteratura e realtà (3)

Questo thread ha visto finora parlare sull'argomento Gadda, Nabokov e Greene.
E' un po' grossa per un blog che si occupa di letteratura di genere. Tuttavia, riservandomi di lasciare prima o poi la parola a Raymond Chandler, ho deciso di inserire in questa quarta puntata un nome altrettanto illustre.
Luigi Pirandello.
Anche lui aveva le sue opinioni sulla verosimiglianza nell'arte.
Ecco, a beneficio di coloro che si arrovellano sul tema, alcune sue riflessioni riportate alla fine di "Il Fu Mattia Pascal", nel suo caratteristico stile lucido e paradossale a un tempo. La postfazione si intitola "Avvertenza sugli scrupoli della fantasia", e trovo che definire "scrupoli della fantasia" l'almanaccare sulla verosimiglianza, sia delizioso!

La vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l'inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l'arte crede suo dovere obbedire.
Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All'opposto di quelle dell'arte che, per parer vere, hanno bisogno d'esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità.
Un caso della vita può essere assurdo; un'opera d'arte, se è opera d'arte, no.
Ne segue che tacciare d'assurdità e d'inverosimiglianza, in nome della vita, un'opera d'arte è balordaggine.
In nome dell'arte, sì; in nome della vita, no.

lunedì 7 aprile 2008

La Busta di Manila si ipostatizza!

La Busta di Manila ha abbandonato la virtualità della Rete per approdare in libreria!
E' successo il 6 aprile scorso, alla Libreria Rinascita di Via Alpino 48 in Roma, dove alcuni autori del gruppo RomaGialloFactory hanno dato vita al primo appuntamento intitolato, appunto, alla Busta di Manila. Partecipavano Carmen Iarrera, Giulio Leoni, Nicola Verde, Luigi De Pascalis, Enrico Luceri, Massimo Mongai e il sottoscritto.
L'incontro, annunciato da un trailer che potete vedere qui, aveva per oggetto la creatività all'interno della narrativa di genere, mystery in particolare.
Cos'è venuto fuori?
Che le famose "idee" lo scrittore non le "prende", ma gli arrivano, come a tutti, continuamente. Solo, lo scrittore è più attento a fiutarle, a percepirle e a selezionare quelle potenzialmente valide. Ad alcuni le idee arrivano mentre stanno per addormentarsi, ad altri in sogno, ad altri ancora mentre stanno camminando lungo una strada (leggermente) in salita. A certuni mentre guidano la macchina; per questo, tengono dei post-it a portata di mano e una certa dose di amore per il rischio nell'animo.
Questo significa quel che il cognitivismo sa da tempo: ovvero, che l'attività conscia del cervello è largamente sopravvalutata. La maggior parte dei problemi vengono affrontati dalla mente in modo pre- o sub-conscio, e restituiti all'attenzione della coscienza una volta elaborati. La coscienza serve per impostare il problema, non per risolverlo. Per semplificare un discorso complesso: una volta imparata a portare l'auto, lo facciamo inconsciamente. Anzi, se ci mettiamo a pensare al piede che abbandona la frizione, è la volta che ci impalliamo. Allo stesso modo, lo scacchista di valore non esamina tutte le mosse possibili (questo lo fa il computer): si concentra sulle due o tre che istintivamente "vede" essere buone. Per chi vuol saperne di più sul tema, consiglio il libro di Julian Jaynes "Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza", ormai un classico.
Un'idea per un giallo avrà in genere a che vedere con un movente, con un omicidio particolare, con un indizio spiazzante; ma anche con un'atmosfera, con un personaggio, con un dettaglio, come una scarpa rossa abbandonata lungo il marciapiede.
Il "tipo" di idea determina di solito il tipo di giallo che si scriverà: un suspense richiede molta attenzione ai personaggi e all'ambientazione e molto di meno al motore della vicenda (quello che Hichcock liquidava come un "Macguffin"), un giallo a enigma richiede una situazione delittuosa complessa, e a questa situazione i personaggi possono esser sacrificati. Patricia Highsmith e Agatha Christie venivano sollecitate da tipi di idee molto diverse, perché diverse erano le loro personalità e i loro interessi.
Questi spunti vengono poi elaborati con l'aiuto del mestiere. Difatti, in fondo l'idea non può essere separata dalla struttura narrativa, che in un giallo è molto importante ed è, in parte, codificata o comunque presenta caratteristiche ricorrenti (lo stesso accade con le fiabe: se ho un'idea per una fiaba, in seguito i punti salienti individuati da Vladimir Propp mi aiutano a svilupparla in una scaletta di massima, che poi limerò e adatterò secondo la mia creatività).
Questo porta ad affrontare il tema dei ferri del mestiere. Ma dopo quasi due ore di discussione, RGF ha dato forfait e appuntamento alla prossima volta!

venerdì 21 marzo 2008

Un uomo come un altro: Ferenc Pinter

Se ne è andato pochi giorni fa e non se ne è parlato tanto.
Ma per chi ama i libri, è un gran dispiacere: era il più grande "copertinista" della Mondadori, assieme a Karel Thole. Diversissimi per stile, iperrealista e raffinato Karel (le copertine di Urania, di Fantomas, degli Oscar dedicati a Sherlock Holmes, per cui elaborò disegni dark in punta di pennino), impressionista e quasi naif Ferenc.
Pinter fu il disegnatore, tra l'altro, dei romanzi di Simenon dedicati al commissario Maigret - Cervi. Disegnò sia "Le inchieste del commissario Maigret", quattordicinale Mondadori che arrivò a 76 titoli, e gli Oscar dedicati al celebre commissario. Pinter non amava i disegni del quattordicinale, li definiva brutti e commerciali, tanto che in quei libri non è riportato nemmeno il suo nome. Preferiva, e forse a ragione, quelle degli Oscar, veri piccoli quadri nei quali, con i suoi semplici tratti, metteva in grafica lo stile sciutto, quasi anti-letterario di Simenon.
Fumava la pipa, Pinter, altra cosa che me lo rendeva simpatico, e in un'intervista disse: Bisogna anche sapersi 'vendere' e avere fortuna. Vendermi non è mai stato il mio forte e mi ritengo già fortunato di avere fatto il mio percorso in Mondadori senza fare mai mancare nulla alla mia famiglia. Forse le sembrerà strano, in questi tempi dove le tasse cercano tutti di evitarle, ma quando fatturai la mia prima collaborazione esterna ero orgoglioso di poter pagare le tasse. Ero soddisfatto di poter dare il mio contributo a questo Paese che mi ha dato tanto...
Forse in questo blog non c'entra granché, ma mi piaceva ricordare un uomo così.
Adesso, anche lui dorme il grande sonno.

mercoledì 12 marzo 2008

Greene, Hitchcock e il senso della realtà

Per un appassionato della lettura, non esiste luogo più promettente di una libreria dell'usato. Infatti, a causa della moderna abitudine di leggere tutti "a tempo", ovvero leggere tutti la stessa "novità" pubblicizzata dai media, i cataloghi si restringono e le liste dei libri in ristampa, come quelle elettorali, lasciano fuori nomi di prestigio (e sostanza).
Le librerie dell'usato offrono ai bei libri dimenticati un'opportunità di sopravvivenza per un ristretto numero di gourmet.
Graham Greene è uno dei miei scrittori favoriti: e il libro dimenticato dagli editori è "Vie di scampo", un'autobiografia letteraria che permette all'appassionato frequentatore di Greenelandia uno sguardo nel laboratorio e nei dubbi dello scrittore inglese.
Questo libro suggerirà certo spunti di riflessione al blog. Comincio con una gustosa contrapposizione di idee: Graham Greene (che è stato anche sceneggiatore e critico cinematografico) contro Alfred Hitchcock!
Ecco cosa pensa Greene dell'arte hitchcockiana:

L' "inadeguato senso della realtà" di Hitchcock mi irritava e continua a irritarmi... continuo a ritenere di aver avuto ragione (qualunque cosa possa dire Monsieur Truffaut) quando scrissi: " I suoi film consistono di una serie di piccole situazioni melodrammatiche "divertenti": il bottone dell'assassino che cade sul tavolo del baccarat; le mani dell'organista strozzato che protraggono note nella chiesa deserta... molto superficialmente egli arriva a tali complesse situazioni (senza prestare la benché minima attenzione, durante il cammino, alle incongruenze, alle situazioni non risolte, alle assurdità psicologiche) e poi le lascia cadere: non significano niente, non conducono a niente."

E' probabile che Greene si riferisse all'intervista che Truffaut fece a Hitch, divenuta un libro (giustamente) famoso e in cui i due registi esprimono giudizi sull'arte della narrazione (che sia cinematografica importa poco) e... sui critici.

AH: Siamo logici:se si vuole analizzare tutto e costruire tutto in termini di plausibilità e verosimiglianza, nessuna sceneggiatura che si basi sulla finzione resisterebbe a una simile analisi; a questo punto non resterebbe che una cosa da fare: dei documentari.Chiedere a uno che racconta delle storie di tener conto della verosimiglianza mi sembra tanto ridicolo come chiedere a un pittore figurativo di rappresentare le cose con esattezza. Qual è il limite della pittura figurativa? Non è la fotografia a colori? Non è d'accordo?
Un critico che mi parla di verosimiglianza è una persona senza immaginazione.
FT: Ricordi che, per definizione, i critici non hanno immaginazione e questo è normale. Un critico dotato di immaginazione non potrebbe più essere obiettivo. E proprio questa mancanza di immaginazione che li porta a preferire le opere più spoglie, più nude, perché danno loro la sensazione di poter quasi esserne gli autori. Per esempio un critico può ritenersi capace di scrivere la sceneggiatura di Ladri di Biciclette, ma non quella di Intrigo Internazionale e di conseguenza attribuisce ogni merito a Ladri di Biciclette e nessuno a Intrigo Internazionale.
AH:Girare un film, per me, significa innanzitutto raccontare una storia. Questa storia può essere inverosimile, ma non deve mai essere banale. Il dramma è una vita dalla quale sono stati eliminati i momenti noiosi.

A ognuno la sua opinione. Io sto con Hitch. Nonostante Greene sia uno dei miei scrittori favoriti.

mercoledì 27 febbraio 2008

Come scrivo un romanzo: Wodehouse

Un articolo di Repubblica del 24 gennaio scorso (Il benessere? Viene dal buonumore -In tanti con lo "Yoga della risata") racconta lo sviluppo di una nuova disciplina, lo Yoga della Risata appunto. Inizia così: "Ridono senza un motivo per migliorare il proprio benessere fisico e psicologico, si riuniscono in tutto il mondo intorno a cinquemila e cinquecento centri specializzati che vanno dalla Thailandia alla Svezia, dal Giappone all'Italia e la prima domenica di maggio di ogni anno festeggiano la loro giornata mondiale. Chi sono?"
Io un'idea ce l'avrei, ma la tengo per me. Non ho però idea se questi sghignazzatori conoscano Pelham "Plum" Grenville Wodehouse (1881-1975), uno dei più fini scrittori umoristici prodotti dalla Gran Bretagna, e i suoi personaggi, dal maggiordomo Jeeves a Ukridge fino all'Imperatrice di Blandings: forse no, altrimenti un motivo per ridere l'avrebbero, e allora che fine farebbe la disciplina?
Wodehouse è un altro scrittore compulsivo, come Simenon e Dard, di cui ho parlato in precedenza. Nella sua lunga vita ha scritto un centinaio di romanzi, trenta lavori teatrali e una ventina di sceneggiature per il cinema. Inoltre, è stato paroliere per celebri musicisti. Senza aderire ad alcun Centro della Risata, mantenne sempre un umore allegro: durante la Seconda Guerra Mondiale, fu internato in un campo di concentramento tedesco, nel quale scrisse un romanzo - umoristico, ovviamente. Ingenuamente, accettò di parlare delle condizioni di prigionia dai microfoni della radio nazista: lo fece con tono leggero, fu accusato di tradimento, difeso da George Orwell e decise che non sarebbe mai tornato in Inghilterra - dove, del resto, non viveva più già da vent'anni.
A novantun anni ("Novantuno e mezzo! Novantadue a ottobre" precisava con civetteria) rilasciò alla "Paris Review" (nella serie "The Art of Fiction") un'intervista, in cui parla della sua attività di romanziere. Eccone alcuni brani.

Qual è la sua giornata tipo lavorativa, adesso?
Comincio ancora alle sette e mezza. Faccio la mia quotidiana dozzina di esercizi, colazione e vado nel mio studio. Quando mi trovo tra due libri, come ora, siedo in poltrona, penso e prendo appunti. Prima di cominciare un romanzo, raccolgo circa quattrocento pagine di annotazioni, per lo più incoerenti. Ma arriva sempre il momento in cui mi accorgo che un romanzo sta per iniziare. Riesco più o meno a vedere come si sviluppa. Tutto il resto è questione di dettagli.

Quindi lei predispone tutto in anticipo?
Sì. Per un romanzo umoristico devi avere uno "scacchiere" definito e testarlo, così da capire quando e dove si sviluppa la commedia... separarlo in diverse scene (puoi ricavare una scena da praticamente tutto) e lasciare tra loro meno "fuffa" possibile.

E' davvero possibile sapere dove si trova qualcosa di divertente in un preciso punto dello "scacchiere"?
Certo, anche se poi, nello sviluppo della storia, non gli rimani fedele. Non credo di essere mai rimasto fedele a uno scenario. Quando ho una scaletta ben definita, posso lavorare indefessamente. Lavoro al mattino, poi vado a fare una passeggiata, poi ricomincio a scrivere. Non lavoro mai dopo cena. Sono le scalette, la difficoltà: ci vuole un sacco di tempo per metterle a punto. Mi piace pensare ad alcune scene specifiche, non importa quanto assurde o improbabili, e poi lavorare avanti e indietro per giustificarle nella storia.

Corregge spesso? Fa molte revisioni?
Sì. E spessissimo mi accorgo che qualcosa andava in un altro posto: una scena che ho messo nel capitolo due mi accorgo, al capitolo dieci, che sta meglio qui, adesso.

Se dovesse dare un consiglio a uno scrittore di romanzi umoristici, cosa direbbe?
Arrivare al dialogo il prima possibile. Niente mette fuori uso il lettore più di una gran pennellata di prosa proprio all'inizio. Credo che il successo di un romanzo - se è un romanzo di azione - dipenda dai punti forti. Ti devi chiedere: "Quali sono le scene madri?" e quindi spremere ogni goccia di succo da loro. Io penso ai personaggi come ad attori sul palcoscenico. Mi dico: se un grande attore avesse questo ruolo, e capisse che dopo un forte primo atto non avesse praticamente nulla da fare per tutto il secondo, bè se ne andrebbe. Come posso dargli da fare per tutta la recita?

Si è mai arrabbiato con i critici? Ha mai pensato che fossero poco gentili?
No, mai. Non si può piacere a tutti.

Che ne pensa dei Beats? Qualcuno come Jack Kerouac, per esempio, che è morto qualche anno fa?
Jack Kerouac è morto! Davvero?

Sì.
O Dio. Non fanno che morire, vero?

martedì 12 febbraio 2008

L'intelligenza della forma

Meccanismi, meccanismi... in fondo il problema è tutto qui.
Avete una visione olistica o riduzionistica della Letteratura?
Qual è la sede del godimento artistico? Il cuore, il cervello o, come sosteneva il solito burlone di Nabokov, un punto in mezzo alle scapole?
La risposta, ve la preannuncio, è: "42".
(se non sapete a cosa mi riferisco, peggio per voi.)
Mentre queste domande incombono, di seguito riporto un articoletto uscito sul numero 94 di Vibrisse, a firma Giovanna Zoboli. Si intitola "L'intelligenza della forma" e mi sembra un chiarissimo contributo ai concetti di meccanismo, di costruzione, di artificio lettario che tanto piacciono a un modesto scrittore di formazione ingegneristica come il sottoscritto.

Una ventina d’anni fa, nelle sale della Triennale (esposizione milanese di arti industriali), ricordo l’incontro con un oggetto stupefacente: una gigantesca macchina il cui unico scopo era far muovere una biglia d’acciaio. Scivoli, piani, rotaie, ponti, scalette, tubi, altalene dislocati ad arte perché la pallina procedesse lungo un movimentato e complesso percorso. Il meccanismo funzionava sfruttando pesi, dislivelli, velocità e attriti, secondo le leggi della dinamica e della fisica. La gente, me compresa, si affollava intorno alla macchina e, in perfetto silenzio, rapita e concentrata, fissava il corpo metallico in movimento.
È l’unica cosa che ricordo di quella Triennale. Ma ricordo anche la ragione per cui tale memoria è durata fino a oggi. La macchina mi parve una metafora perfetta dei meccanismi narrativi. Quell’oggetto era una storia. Attraverso un sofisticato marchingegno, raccontava le vicende della sua protagonista: una biglia che – sebbene d’acciaio e pertanto non dotata di sentimenti, raziocinio e volontà – nel compiere il suo percorso mostrava una personalità spiccatissima. Aveva, infatti, indugi, arditezze, pigrizie, regressioni, slanci, depressioni, fin anche rabbie, ripensamenti e collere. O, almeno, procedeva così abilmente lungo la sua strada, da suggerire agli osservatori questa intera gamma di emozioni.
Questa macchina si sarebbe potuta definire “altamente credibile”. Non per niente mi è tornata alla mente leggendo gli interventi sul “farsi credere” di questi ultimi numeri.
Ma dal punto di vista della credibilità della storia, non credo che a uno scrittore sia necessario sapere ogni dettaglio della materia di cui scrive. Credo sia, in qualche modo, illusorio pensare che il possesso di tutte le informazioni serva, in sé, a costruire un testo capace di farsi leggere da cima a fondo.
In sostanza, la credibilità non è determinata dall’eventuale, comprovata verità o verosimiglianza dei contenuti di un testo. Credo che si tratti di qualcosa che con la verità o la verosimiglianza ha molto a che fare, ma in un modo più complesso e sottile di un rapporto diretto; in un modo anche sfuggente, direi, non del tutto controllabile dallo scrittore.
In qualche modo, la credibilità è uno degli attributi fondamentali non solo della letteratura, ma di tutte quelle particolari realizzazioni umane che per comodità mettiamo sotto il nome di “arte”. Per quanto mi riguarda, penso che la credibilità sia una sorta di “intelligenza della forma”.
Non di rado chi scrive ha l’impressione di risolvere un problema di logica matematica, anche se magari sta scrivendo solo una brochure aziendale. Non credo che la logica sottesa alle strutture del linguaggio si allontani molto dalla complessità e dal rigore della matematica. Ho avuto spesso questa impressione, mentre scrivevo: forse l’impressione sopra descritta di aver scritto una cosa “vera”, nonostante la consapevolezza della sua natura del tutto fantastica, deriva proprio da questo. Il linguaggio possiede una sua profonda intelligenza, che lo scrittore deve imparare a conoscere e a utilizzare.
Non credo che creare una forma intelligente, dotata in massimo grado dell’attributo della credibilità, sia qualcosa di molto diverso da quello che facevamo da bambine, giocando alla settimana enigmistica o guardando il cielo notturno, d’estate. In entrambi i casi, si tratta di stabilire nessi di senso profondo fra le cose. Stabilire vincoli di necessità tra elementi che magari appaiono uniti, ma in modo inesplicabile e misterioso, o addirittura sembrano lontanissimi fra loro, del tutto inconciliabili. Il linguaggio è uno strumento prodigioso, in questo senso. È come la matita che compone il disegno nascosto. O come l’occhio, che compone le linee che collegano stelle lontanissime fra loro, formando il disegno, del tutto arbitrario, ma assolutamente vivo, vero e pulsante di significato, delle costellazioni. Una sorta di meravigliosa macchina per stanare significati.
Viene allora un sospetto: e se fosse la biglia a descrivere il funzionamento della macchina anziché la macchina a raccontare la storia della biglia? Che siano tutt’e due le cose insieme? La cosa non è affatto improbabile.

Una precisazione: ma perché diavolo in questo blog lascio sempre la parola ad altri? Non certo per la passione dell' "ipse dixit".
E' solo che è così faticoso scrivere cose già dette da altri...
L'originalità, dopotutto, è una virtù decisamente sopravvalutata.

sabato 26 gennaio 2008

On Air

Durante l'ultima Lucca Comics & Games, io e Massimo Mongai abbiamo presentato i vincitori del Premio R.i.l.l. e cazzeggiato sulla fantascienza, sulla pallida motivazione del trentennale di Star Wars e altre ricorrenze concomitanti che non ricordo.

Successivamente, introdotti da Alberto Panicucci, uno dei "rillini" della prima ora, abbiamo riportato alcune di queste considerazioni ai microfoni della web-radio improntadigitale.org.

Se non avete niente di meglio da fare, andando qui e cercando, in fondo alla pagina, "Intervista ad Alberto Panicucci", potrete rivivere quegli emozionanti momenti...

sabato 19 gennaio 2008

Dame Agatha Christie o Miss Jenna Jameson?

Non si tratta di uno di quei sondaggi che imperversano sui nostri canali televisivi (di solito tramite esosi numeri a pagamento), bensì di una "provocazione" del buon vecchio Nabokov: il giallo è in fondo come la pornografia. Provocazione non è la parola esatta, poiché si vedrà subito che Nabokov pensa davvero quel che scrive. E forse, da un certo punto di vista, non ha tutti i torti: il giudizio spetta al paziente lettore di questo disordinato blog.
Lo scrittore, nella postfazione a "Lolita", si ritrova ovviamente a polemizzare con le accuse di pornografia e oscenità che hanno accompagnato l'uscita del romanzo. La sua obiezione è che "Oscenità" non ha e non può avere nulla a che fare con "Letteratura", per questo motivo:

L'oscenità deve accoppiarsi con la banalità, perché qualsiasi genere di godimento estetico dev'essere interamente sostituito dal semplice stimolo sessuale, il quale, per avere un'immediata efficacia sul paziente, esige la terminologia tradizionale. Per far sì che il suo paziente abbia le stesse garanzie di soddisfazione, il pornografo deve conformarsi a regole vecchie e rigide...

Fin qui, credo siamo tutti d'accordo: è un po' quello che sostiene anche Umberto Eco in un suo articolo in "Dalla periferia dell'impero". Ma ecco come continua Nabokov:

... proprio come nel caso, per esempio, degli appassionati di romanzi polizieschi - storie in cui, se non si sta attenti, può saltar fuori, con grande disappunto del lettore, che il vero assassino è l'originalità artistica (chi vorrebbe, per esempio, un poliziesco senza un solo dialogo?). Così, nei romanzi pornografici, l'azione deve limitarsi alla copula dei cliché. Lo stile, la struttura, le immagini non dovrebbero mai distrarre il lettore dalla sua tiepida lussuria. Il romanzo deve consistere in un'alternanza di scene sessuali. I passaggi tra l'una e l'altra scena devono ridursi a suture di significato, ponti logici dal disegno elementare, brevi esposizioni e spiegazioni...

Una cosa è certa: Nabokov non amava i gialli. Si potrebbe facilmente ribattere che, probabilmente per questo, ne ha letti pochissimi: altrimenti non si sarebbe espresso così.
Da un certo punto di vista, però, Nabokov non ha tutti i torti: se guardiamo alle celebri venti regole di Van Dine su come si scrive un buon giallo, ci troviamo di fronte a frasi del genere:

Un romanzo poliziesco non deve contenere descrizioni troppo diffuse, pezzi di bravura letteraria, analisi psicologiche troppo insistenti, presentazioni di "atmosfera": tutte cose che non hanno vitale importanza in un romanzo di indagine poliziesca. Esse rallentano l'azione, distraggono dallo scopo principale che é: porre un problema, analizzarlo, condurlo a una conclusione positiva. Si capisce che ci deve essere quel tanto di descrizione e di studio di carattere che é necessario per dar verosimiglianza alla narrazione...
Non ci deve essere una storia d'amore troppo interessante. Lo scopo é di condurre un criminale davanti alla Giustizia, non due innamorati all'altare.
Una storia poliziesca deve riflettere le esperienze quotidiane del lettore, costituisce una valvola di sicurezza delle sue stesse emozioni...

E' ovvio che queste raccomandazioni sono superate, spazzate via da scrittori come Hammett, Chandler, Simenon, Scerbanenco, Rendell e così via. E tuttavia, come non vedere che i cliché sono sempre in agguato (il noir ne ha inventati a bizzeffe!), che lo stile viene limitato necessariamente dal contenuto? Lo stile, la struttura e le immagini non devono distrarre il lettore di pornografia dalla lussuria; fino a che punto, invece, possono distrarre il lettore di polizieschi dalla scoperta del colpevole o dalla conclusione della caccia al serial killer?

venerdì 11 gennaio 2008

Letteratura e realtà (2)

Ho iniziato questo argomento qualche giorno fa, riportando una considerazione di Carlo Emilio Gadda.
Adesso lo riprendo, lasciando la parola a Vladimir Nabokov.
Per inciso, lo scrittore e insegnante di scrittura creativa John Gardner sosteneva, forse ispirandosi alla filosofia del celebre Tuco - Eli Wallach, che gli scrittori si dividono in due categorie: quelli che parlano di sé e quelli che parlano degli altri. Nella prima categoria, Gardner metteva Proust, Joyce e Nabokov. Ci avrebbe messo di certo anche Gadda, se lo avesse conosciuto. Riteneva che a costoro mancasse qualcosa che gli altri avevano. E' una sua idea. (Si potrebbe citare quell'altro celebre pensatore, l'ispettore Callaghan, a proposito delle opinioni che "sono come le palle: ognuno ha le sue", ma sorvolerò.)
A conclusione di "Lolita", Nabokov riporta alcune considerazioni sulle difficoltà della sua pubblicazione e sulle interpretazioni e critiche che fioccarono, nel suo inimitabile stile raffinato e sferzante assieme. Poche paginette dove si parla di molte cose.
Anzitutto, Nabokov si sbarazza della visione pedagogica della letteratura:

Ci sono anime miti che giudicherebbero "Lolita" insignificante perché non insegna loro nulla. Io non sono né un lettore né uno scrittore di letteratura didattica... Per me, un'opera di narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estrema, cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri strati dell'essere dove l'arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma. Non ce ne sono molti, di libri così. Gli altri sono pattume d'attualità o ciò che alcuni chiamano la Letteratura delle Idee, la quale consta molto spesso di scempiaggini di circostanza che vengono amorosamente trasmesse di epoca in epoca in grandi blocchi di gesso finché qualcuno non dà una bella martellata a Balzac, a Gor'kij, a Mann.

(Capite perché ho scelto questa foto di Nabokov coi guanti da pugile?)

E' infantile studiare un'opera di narrativa per trarne informazioni su un paese o su una classe sociale. Eppure uno dei miei pochissimi amici intimi, dopo aver letto "Lolita", si preoccupò sinceramente che io (io!) dovessi vivere tra "gente così deprimente".

Queste considerazioni sfiorano il tema letteratura-realtà. Ma la seguente descrizione delle variazioni proposte da un editore al libro, centra in pieno la questione!

Un lettore disse che forse la sua casa editrice avrebbe preso in considerazione la pubblicazione del libro se avessi trasformato la mia Lolita in un ragazzino di dodici anni poi sedotto da Humbert, un agricoltore, in un granaio, il tutto ambientato in un paesaggio brullo e desolato ed espresso con frasi brevi, forti, "realistiche" («Quello dà fuori di matto. Come tutti quanti, sai. Anche Dio dà fuori di matto.»)... immagino che certi lettori trovino eccitante lo sfoggio di frasi murali di quei romanzi irrimediabilmente banali ed enormi, battuti a macchina con due dita da persone tese e mediocri, e definiti dai pennivendoli "vigorosi" e "incisivi".

Evidentemente, a quel tempo il "realismo" era un paesaggio brullo, ancestrale, alla Caldwell per intenderci, e le frasi murali brevi, forti e realistiche richiamano certi dialoghi di scrittori on the road. E' probabile che simili suggestioni oggi siano realistiche quanto il paesello di miss Jane Marple: anche la realtà è soggetta a mode.
Delle quali, Nabokov si fa allegramente beffe.

giovedì 10 gennaio 2008

La dura vita dello scrittore di gialli

Frédéric Charles Antoine Dard (1921 - 2000) è, con Georges Simenon, il compulsive writer per eccellenza. Qualche numero: Tra il 1940 ed il 2000 ha scritto 288 romanzi, 250 storie brevi e 20 rappresentazioni teatrali. Ha venduto 240 milioni di libri e gli sono state dedicate decine di tesi universitarie.
E' noto in tutto il mondo per le inchieste del Commissario Sanantonio, che anche da noi hanno conosciuto un vasto successo soprattutto negli anni '70, quando la Mondadori le spedì in edicola a riempire il vuoto lasciato dalla conclusione della saga di Maigret. Se non le avete mai lette, fatelo: si trovano facilmente sulle bancarelle dell'usato, a riprova di quante ne sono state vendute.
I romanzi di Sanantonio si basano su trame ricche di colpi di scena, spesso inverosimili, impepate di sesso e politicamente scorrettissime, come avrebbe forse potuto scriverle un Edgar Wallace convertito all'hard-boiled school; ma la loro vera peculiarità sta nella lingua pirotecnica, zeppa di neologismi (se ne contano 15.000), nelle metafore ardite, in digressioni filosofiche sulla vita l'universo e tutto quanto, e in citazioni-prese in giro che lasciano supporre un autore molto più colto del pubblico cui, almeno all'inizio, si rivolgeva. Insomma, uno Jacovitti del poliziesco, il tipico scrittore che i critici amano riscoprire dopo averlo ignorato per anni.
Scriveva il Paese Sera: "Dard colloca le avventure del suo commissario in un tessuto della più bella tradizione: il poliziesco d'azione con tutti gli elementi costitutivi ormai divenuti canonici... ma egli svuota questi elementi della loro serietà, ne rode la carica aggressiva, mette in discussione la loro posizione di fattori di un universo preordinato, in modo che la "realtà" della finzione cade ed il lettore è coinvolto in un procedimento "consapevolmente" fittizio, in un racconto gioco."
Orbene, in un romanzo dall'emblematico titolo: "La vita privata di Walter Klozett" (che tra l'altro costituisce un punto di svolta nella saga, perché qui il commissario rassegna le dimissioni dal servizio, come - prima di lui - un altro grande personaggio della letteratura di genere), il nostro Dard abbandona a se stesso lo sviluppo della storia per una delle sue digressioni: sulla dura vita dello scrittore di gialli. Sentiamolo.

La scocciatura, nel poliziesco, è che bisogna sempre spiegare tutto: il fatto, il come, il perché, tutto preciso, senza lasciar nulla nell'ombra, senza nulla omettere, sempre alla luce del sole dato che noialtri lavoriamo nel cartesiano. Dobbiamo essere ligi alla verità ed è inclusa nel nostro contratto. Ergastolani smarriti, eccoci a spaccare le parole come fossero pietre, a incasellare parole, a intrecciare frasi, panierai di sotto-sotto-sotto letteratura abietta, inquinante, depravante, cinica, volgare, pornografica, oscena, insomma commerciale. Siamo responsabili di quello che inventiamo. Ogni gag è un boomerang che ti becchi in un angolo della faccia se non fai rigorosamente attenzione, se non hai il giusto riflesso di schivare la fine della traiettoria. Lanciare è facile. Al momento di imbracciare qualsiasi tiratore gode del beneficio dell'ammirazione. E' incontestato all'inizio della sua azione. Nessuno lo mette in dubbio finché non ha premuto il grilletto. Ma se sbaglia il bersaglio, il suo credito va alla malora. Per noialtri fessi della penna, è la stessa cosa. Terribilmente uguale. Puoi inventargli qualsiasi cosa, al lettore. La più incredibile, la più suspensosa, lui la inghiotte, contento, un vero struzzo. Glaup! Sennonché, non credere che la digerisca. E' un ruminante, quel piffero. Piazza tutto su un calcolatore elettronico, ti aspetta al varco. Se sbagli, eccoti carbonizzato nella sua soffitta delle meningi là dove sciabordano le meschinerie universali. Mangiata viva la tua reputazione! Annullata come un assegno a vuoto!

Era o no un genio, il buon Dard? Dovrebbero metterlo all'ingresso delle scuole di scrittura creativa, questo pezzo.