Massimo Pietroselli: romanzi e antologie

giovedì 20 dicembre 2007

Come si scrive un romanzo di genere?

Ma i manuali di scrittura creativa servono? Esattamente non lo so: forse, non più di quanto "serva" il Kamasutra. Di certo, non basta il Kamasutra per diventare Rocco Siffredi, su questo siamo tutti d'accordo.
Però leggere il Kamasutra è divertente (e per certuni illuminante), così come è divertente (e per certuni illuminante) leggere alcuni manuali di scrittura creativa.
E' difficile divertire con la scrittura creativa: dopotutto, si tratta di fornire indicazioni riguardo la parte più faticosa del processo di scrittura, quello che si fa col sedere (cioè, stando materialmente inchiodati alla scrivania, un po' come si obbligava a fare l'Alfieri). Eppure, ci si può riuscire: lo dimostra "Come si scrive un romanzo di genere" di Massimo Mongai, uscito da poco per i tipi Omero.
Preciso che conosco Mongai da anni e che apparteniamo entrambi a quel gruppo di scrittori di mystery aggregatosi sotto "RomaGialloFactory", oltre ad aver vinto entrambi il Premio Urania (e Massimo ci è rimasto molto male quando ho vinto anche il Tedeschi, perché contava di vincerlo prima lui): e tuttavia cercherò di essere obiettivo, come lo fu Carlo Emilio Gadda quando si trovò a recensire un libro dell'amico Bonaventura Tecchi (lo rovinò letteralmente: ma di questo, a suivre).
Il manuale di Mongai parla soprattutto di Mongai: nel senso che racconta come scrive Mongai (e Mongai scrive e parla tanto, credetemi), cioè uno scrittore in carne (tanta) e ossa che è anche un gran personaggio di finzione, un Gideon Fell della Garbatella, un Orson Welles della Metro B, le cui lezioni di scrittura creativa diventano happening (cercatelo su YouTube). Naturalmente c'è tutta la parte noiosa di cui parlavo sopra, il soggetto, la scaletta, la scheda dei personaggi, il piano di lavoro, come si fanno le ricerche etcetera; ma lardellata di esempi concreti, presi spesso dalla sua diretta esperienza, e di esercizi che sembrano piuttosto sfide al lettore. C'è anche un'introduzione alla letteratura di genere, nella quale Mongai dà sfoggio della sua vis polemica e del suo essere politicamente scorrettissimo. Sentite qui:

... Troppo spesso cattivi scrittori e pessimi editori cercano di gabellare per genere quello che non lo è. Gli scrittori che lo fanno lo fanno quasi sempre per il migliore dei motivi: non sanno scriverlo un giallo vero, o quel che sia di qualsiasi genere. Non conoscono e non sanno applicare le regole. Non è che non vogliono (come spesso sostengono), non sanno: se sapessero farebbero; e se fanno altro, se quel che fanno, come sono loro i primi a dire, "non è solo un giallo" o "non è solo fantascienza", allora perché chiamare quel che fanno con un nome che non gli spetta? La macchinetta, il meccanismo del giallo, è difficile da scrivere. "Mettere un morto ammazzato al terzo capitolo, che ci vuole?", ho sentito dire questa imbecillità più di una volta. [Una di queste volte c'ero anch'io, è accaduto due anni fa e Mongai ancora trasuda bile al ricordo, giuro.] Mettere un morto ammazzato al terzo capitolo in modo coerente, con il meccanismo completo, plausibile e coerente fino alla fine è difficilissimo: prima ce lo metti poi mi dici che non ce lo vuoi mettere, e per cortesia non mi dire che mi stai vendendo un noir solo perché le atmosfere sono quelle.

Divertente, dunque. E illuminante? Bè, io sono rimasto colpito quando Mongai parla dell'essenza della storia, del racconto. Siccome sono un po' snob e me la tiro, in questo frangente lustro il monocolo e sfodero Franco Ferrucci e la sua teoria secondo cui, dai tempi di Omero, non facciamo che raccontare dell'assedio o del ritorno. Mongai no: lui tira fuori la vecchia canzone di Casablanca, "As Time Goes By"... ed è una sorpresa e un pezzo di bravura. Conosco quella canzone a memoria, da vecchio sinatrologo, eppure non avevo mai pensato che potesse essere interpretata a questo modo!
Su una cosa però non sono d'accordo. Mongai sostiene spesso, e lo fa anche in apertura di manuale, che "un buon romanzo giallo è prima di tutto un buon romanzo". Questo è un artificio retorico. Allo stesso modo, si potrebbe sostenere che un buon film porno è prima di tutto un buon film. In realtà, l'aggettivo "buono" ha una valenza diversa nei due casi, poiché il cervello è (in genere) molto più elastico delle parole che utilizza.

Il Pitagora del "giallo"

Thomas Narcejac ha dato vita insieme a Pierre Boileau a una delle poche coppie di scrittori della letteratura poliziesca (le altre sono Ellery Queen e F & L). Sono stati maestri del suspense (da loro romanzi sono stati tratti film come "Vertigo" e "I Diabolici"), creatori di apocrifi di Arsenio Lupin... e teorici del poliziesco.
In un saggio del 1975, "Il romanzo poliziesco" (temo fuori catalogo), Narcejac, per una volta senza Boileau) utilizza la simbolica figura del Triangolo per illustrare una sua personale e geometrica definizione di "mystery". In sostanza, Narcejac distingue tre possibili strutture: il romanzo-enigma propriamente detto (il giallo classico, insomma, basato sulla domanda: "chi è stato?"), il suspense e il thriller.
Io credo che sia molto valida e, visto che sul mystery si fa sempre un gran definire e distinguere, forse è opportuno sentire l'opinione di uno che queste cose le masticava.

... Ogni romanzo poliziesco fa appello a tre personaggi-chiave: il cacciatore, la preda e la vittima. Nel romanzo-enigma classico è la vittima a dare il segnale della caccia, e subito dopo si fa dimenticare. Nel thriller tutta l'attenzione si accentra sullo scontro tra poliziotto e criminale, e in questo scontro cadono numerose vittime, che si notano appena. Al contrario, nel romanzo suspense la vittima diventa il personaggio principale. Qualcuno è minacciato; qualcuno sente avvicinarsi il pericolo e cerca invano di mettersi al riparo. Qualcuno diventa in tal modo un personaggio che noi pian piano impariamo a conoscere, un personaggio che ha un' "intimità" e che, di colpo, diventa avvincente...
... Se, dimenticando il cacciatore e la preda, facciamo attenzione all'esca, al richiamo, alla bestia al paletto, al capro che sta per attirare la tigre e già la sente ansimare nelle vicinanze, naturalmente la prospettiva cambia del tutto. Dentro di noi sorge all'improvviso un senso di pietà, e la pietà è un sentimento esigente. Dal momento in cui si comincia a interessarsi a un personaggio, si vorrebbe sapere tutto di lui. La sua vita, legata a un filo, diventa sempre più preziosa... si decifra un destino.

Questo ingranaggio che è il poliziesco, basato su tre vertici e sulle possibili relazioni tra loro, funziona con due tipi di carburante: il primo è la curiosità (chi è stato?). Il secondo, per Narcejac assai più interessante e letterariamente pregnante, è l'emozione, l'empatia verso il personaggio il cui destino bisogna decifrare.

... Il romanzo suspense si trova di colpo in possesso di ciò che manca al romanzo-enigma e al thriller, vale a dire della dimensione psicologica... per la prima volta arriviamo a sfiorare il romanzo, anche se, sotto i nostri occhi, ci sono ancora e sempre un'enigma e un'inchiesta.

mercoledì 5 dicembre 2007

Smontare il meccanismo

Comincio a gettare il seme di una discussione che mi sta a cuore: e cioè che quel che caratterizza un'opera d'arte è la forma. E quindi, anche un buon romanzo.
Per far questo, lascio la parola a due scrittori: Stevenson e Poe. A distanza di anni, infatti, i due hanno detto cose molto simili.
Ecco Poe, in "La filosofia della composizione":

Molti scrittori preferiscono far credere che compongono con una specie di sottile frenesia o estatica intuizione, e certo rabbrividirebbero se dovessero consentire al pubblico di dare un'occhiata dietro la scena e vedere le ruote e i rocchetti, i paranchi per il cambiamento di scena, le scale e le trappole... tutto l'equipaggiamento che 99 volte su 100 costituisce la prassi comune dell'histrio letterario.

Gli fa eco Stevenson, in "Alcuni elementi tecnici dello stile nella letteratura" (titolo che è tutto un programma):

Non c'è effetto più smagante per l'uomo del mettere a nudo le molle e i meccanismi di qualunque arte. Ogni nostra arte o mestiere svolge il proprio incantamento in superficie: è in superficie che ne percepiamo la bellezza, la pregnanza, il significato. A grattar sotto, restiamo sempre sgomenti del vuoto, e sbalorditi dinnanzi alla rude congerie di funi e di pulegge...

Se avessimo la capacità di scoprire l'origine di quegli artifici, impiegati più o meno consapevolmente, che riteniamo poco dignitosi per un artista serio, ne trarremmo indicazioni sulla raffinatezza del senso molto più sottili di quanto crediamo, nonché un lontano riverbero delle antiche armonie della natura...

Devo avvertire quel ben noto personaggio che è il lettore comune che, in queste pagine, mi sono imbarcato in un'impresa sgradevole: quella di staccare il dipinto dalla parete per scrutare dietro la tela o, come il bambino armeggione, di smontare il balocco sonoro per vedere com'è fatto dentro.

Non voglio certo arguire, sulla scorta di queste autorevoli valutazioni, che la letteratura e le altre arti siano riducibili a pura meccanica: ma solo che lo scrittore non scrive le proprie opere in pieno, e cieco, furore creativo. E se è vero che, più in là, parlerò anzi di come molti scrittori lavorino spesso a livello inconscio (lo stesso Stevenson affermerà questo), credo comunque che non esista contraddizione: solo dopo aver appreso le tecniche, infatti, l'artista può lavorare a livello inconscio. Bisogna imparare il mestiere per poter lavorare, con successo, a livello inconscio.
Provate a scendere le scale badando a mettere un piede avanti all'altro, e cadrete.
Ma provate a scendere le scale senza saper camminare: non ve la caverete molto meglio.

Stuart Kaminsky: come scrivo un romanzo

Poiché viviamo in tempi di Scrittura Creativa imperante, può essere divertente sapere come gli scrittori affrontano un romanzo.
Stuart Kaminsky, ad esempio, è uno scrittore di gialli. Ha ideato diverse serie fortunate, prima tra tutte quella con protagonista lo scalcinato detective privato Toby Peters. Ambientati nella Los Angeles degli anni '40, questi romanzi sfoggiano una gustosa reinvenzione della città di Marlowe e degli Studios hollywoodiani, dialoghi brillanti e personaggi famosi, da Gary Cooper a Albert Einstein, da John Wayne a Eleanor Roosevelt, da Fred Astaire a Salvador Dalì, tutti elementi che ci consentono di perdonar loro (ai romanzi, dico) una certa debolezza di trama. L'anno scorso ha vinto il prestigioso Grand Master Award, assegnato dalla Mystery Writers of America. Pubblicati inizialmente nel Giallo Mondadori, adesso trovate i suoi romanzi per i tipi della Alacran Edizioni.

Bene. I cari, vecchi Gialli Mondadori riservano sempre delle sorprese (un giorno o l'altro vorrei riprodurre qualche articoletto del Mandarino, ad esempio, o alcune voci dell'Enciclopedia del Giallo che apparve a dispense per molti numeri). Per il momento mi sono imbattuto, in appendice al numero 1741 del 13 giugno 1982 ("Mezzanotte di Fuoco", di Kaminsky), in un'intervista di Lia Volpatti al giallista, che si trovava a Roma per lavorare alla sceneggiatura di "C'era una volta in America" (ne curerà i dialoghi, o meglio l'adattamento dei dialoghi dall'italiano all'americano). Poiché viviamo in tempi di Scrittura Creativa imperante, può essere divertente sapere come gli scrittori di gialli affrontano un romanzo.

Ecco di seguito un brano dell'intervista, proprio sullo specifico tema della costruzione di un romanzo della serie Toby Peters.

Come pianifica la stesura di un romanzo?

Penso a una trama per due, tre, anche quattro mesi. Non scrivo nulla, non prendo appunti, non traccio un outline. Penso e basta. Poi scrivo le prime quattro o cinque pagine. Ci penso su ancora qualche giorno e poi parto. Una volta partito scrivo dalle dieci alle venti pagine al giorno, ogni giorno, finché il romanzo non è finito.

La ricostruzione di quegli anni e la ricostruzione della vita di questi personaggi sono molto precise e dettagliate. E' evidente che lei svolge una grande quantità di ricerche. Dove va a saccheggiare tutto questo materiale?

Faccio ricerche sulla Hollywood del periodo che mi interessa in quel momento. Leggo i giornali dell'epoca, tutti i giornali, dalla prima riga fino all'ultima, vado a Los Angeles, cammino per le strade, osservo le strade, parlo con gente che è vissuta in quel periodo, rileggo i miei libri preferiti, frugo nelle biblioteche, studio le biografie, ascolto vecchi spettacoli radiofonici, vado a vedere vecchi film.

Quanto c'è di vero nella ricostruzione di questi personaggi? E quanto di inventato?
Cerco di immaginare, mi sforzo di farlo sempre, come questa gente poteva essere. Come doveva parlare. E poi li ricostruisco in base a una mia interpretazione. Cioè come io sento, immagino che avrebbero potuto parlare, vivere una situazione. Quindi sui dettagli reali innesto una mia interpretazione, una mia fantasia nella quale si mescolano nostalgia e amore.



Qual è l'elemento più importante in una storia? Trama, ambiente, personaggi, atmosfera
Personaggi, decisamente. Sono i personaggi giusti che danno la chiave per la trama. Ecco perché Agatha Christie è grande. Le sue diaboliche trame sono sostenute da personaggi fantastici. Cosa che invece non accade nei romanzi di Ellery Queen. La trama può essere bellissima ma se non ci sono personaggi che la sostengono non serve a nulla.

venerdì 30 novembre 2007

Letteratura e "realtà" (1)

Questo è un problema grosso.

Che cosa ha a che fare la letteratura con la "realtà"? Dalla risposta che si dà alla domanda, discende la propria idea di romanzo, ovvero di quel che bisognerebbe aspettarsi da esso e/o a cosa dovremmo tendere, scrivendone uno.

Come primo spunto di riflessione, riporto una considerazione di Carlo Emilio Gadda, in risposta alle "assurdità" di alcuni lettori o recensori sulla presunta somiglianza di suoi personaggi a persone realmente esistenti (esistono infatti lettori/recensori che si dedicano a questo passatempo).


Quello che voi credete un ritratto è in realtà un terno al lotto. Io vagheggio con la fantasia una certa signora X, un "mio" personaggio: la vagheggio fino a sognarmela di notte: mi sveglio di soprassalto, mi levo dal letto in stato di trance, siedo al tavolo, scrivo: dopo mesi e mesi riprendo quel foglio, riscrivo, gratto, cancello, riscrivo: ricopio quaranta volte: lo dò all'editore. La signora X è venuta al mondo. Succede che a Brembate o a Garbagnate, c'è davvero una signora tale e quale come la signora X. Si tratta, come ognuno capisce, di un incidente combinatorio: che cade sotto il principio di inderterminazione assoluta o principio di Eisemberg. Come quando due giocatori, giocando ai dati, gli viene cinque e tre tutt'e due. Io, nel mio cervello, nella mia psiche ho creato: ho maturato lentamente la signora X mentre con eguale ponderatezza il Padre Eterno, a Garbagnate, ha maturato per suo conto un'altra signora, che tra tutt'e due, però, si somigliano come due gocce d'acqua. Ecco come sono andate le cose.


Insomma, il rapporto tra letteratura e "realtà" si configura come sincronicità junghiana.


Perché Spade si arrotola una sigaretta

Show dont' tell.
Quante volte l'avete letto? La formula magica per la bella scrittura. L'abracadabra del narratore volenteroso.
Non è mica così facile come sembra. Mostrare può essere più noioso che dire, se non si sa cosa mostrare.
Il "Falcone maltese" di Dashiell Hammett contiene alcune sequenze che evidenziano il concetto di “correlativo oggettivo”, ovvero il modo di suggerire nel lettore certi stati d’animo non ricorrendo direttamente alla loro descrizione “in soggettiva”, che spesso risulterebbe inefficace, ma attraverso una sequenza di scene “in oggettiva”. Dico sequenza perchè sono convinto che non sia la scena in sé che crea l’emozione, ma la sua sequenza descrittiva, il “montaggio”, per intenderci.
Nel secondo capitolo del libro, ad esempio, una telefonata sveglia Spade nel cuore della notte (la sveglia, poggiata su un angolo dei "Celebri casi criminali d’America" di Duke, segna le due e cinque), ed egli viene avvisato della morte del suo socio. Cosa fa Hammett? Non si impelaga in elaborate descrizioni dello stato d’animo di Spade, né ci obbliga a seguire i suoi pensieri con il solito discorso indiretto libero che simula il flusso di coscienza. Impone invece al lettore di seguire il detective nei suoi movimenti, ed indugia in particolare nella descrizione di un gesto che scopriremo essere caratteristico di Spade, l’avvolgimento di una sigaretta (con tabacco Bull Durham, tanto per la cronaca), in un paragrafo lungo ben quattordici righe. Un altro lungo paragrafo descrive invece la vestizione dell’eroe, e la scena viene infine tagliata su Spade che esce di casa.
Nessun pensiero dell’eroe, nessun sentimento viene mostrato esplicitamente.
E tuttavia, l’attenzione del lettore è calamitata proprio da quella sequenza di movimenti, che l'accuratezza della descrizione suggerisce siano importanti (altrimenti, non avrebbero meritato quella scrupolosità, e Hammett non era probabilmente pagato a parola). L’indugio rende attento il lettore.
Ricordate i gesti della ragazza che Monroe Starr descrive in quell’improvvisata lezione di cinema ne "Gli ultimi fuochi" di Fitzgerald? Assolvono la stessa funzione.
Scrivere, per Hammett, significa “far vedere al lettore con gli occhi della mente”, senza per questo svilire lo scrittore a puro descrittore di fatti. Le sensazioni possono trapelare, senza essere esplicitate, semplicemente citando il cupo muggito delle sirene da nebbia che una mezza dozzina di volte al minuto entra nella stanza solitaria dell’eroe. O l'arrotolarsi di una sigaretta, appena dopo aver saputo della morte di un socio. Non è come dire: Spade era pensieroso, oppure: Spade si accese una sigaretta meditabondo. L’arrotolarsi della sigaretta per Spade è come il fumo della pipa che invade la stanza di Holmes o l’esile braccio che si allunga verso la fiala di cocaina: il correlativo oggettivo di un’emozione.
Quello va mostrato. Ma bisogna saperlo trovare.

giovedì 29 novembre 2007

La gotta di Collins e il prurito di Marx


C'è gente che confonde l'opera con lo scrittore. E combina catastrofi.

Su Repubblica del 31 ottobre scorso, un articoletto ci informava che il professor Sam Shuster, dermatologo di un'Università il cui nome non voglio ricordare, ha esaminato la corrispondenza di Karl Marx, e ne ha cavato la convinzione che il filosofo soffrisse di idroadenite suppurativa, che si sostanzia in forte prurito e acne. "Oltre a ridurre la sua capacità di lavorare" dice il professore "probabilmente tale condizione ridusse la sua autostima, e ciò spiegherebbe il senso di alienazione che si riflette nelle sue opere." Buono a sapersi.

A questo punto, viene da chiedersi come abbia fatto il povero Cervantes a scrivere un romanzo divertente come il Don Chisciotte, avendo una sola mano (a onor del vero, non risulta che avesse da grattarsi). Ma soprattutto, visto che in questo blog si parla di letteratura di genere, come abbia fatto Wilkie Collins a scrivere la parte più sarcastica della sua "Pietra di Luna", intendo quella narrata in prima persona dalla bigotta signorina Clack, affetto da una gotta così feroce che nemmeno i segretari cui dettava potevano resistere nel sentire le sue urla. D'altra parte, Repubblica ha messo questo articolo sotto la voce Curiosità. Che comincia come Catastrofe. Ma anche come...

Cos'é la Busta di Manila?


Le buste di Manila sono comuni buste gialle, di varia grandezza. Perché siano chiamate così, non lo so (credo abbia a che fare con la polpa di una certa pianta, Manila appunto, con cui si fabbrica la carta). Ma so perché mi interessano.
Le buste di Manila sono una "dimora filosofale" (secondo Fulcanelli, una "dimora filosofale" è un supporto simbolico della verità ermetica. Per esempio, un reperto archeologico, un pezzo iconografico, un foglio di carta... dunque, anche una busta).
Le buste di Manila rappresentano per me il supporto simbolico della creazione letteraria; le usava Georges Simenon, ma non per spedire i suoi romanzi all'editore, bensì per scriverli. E poiché qui intendo occuparmi di note a margine del piacere e del lavoro di scrivere e leggere romanzi, soprattutto di genere, ecco spiegato perché la semplice busta di Manila diviene nome di un blog.
Quella che vedete qui accanto è la busta di Manila usata da Simenon come guida per il romanzo "I fratelli Rico".
Ed ecco cosa confida Simenon a Life, in edicola il 3 novembre del 1958, a proposito del suo modo di accostarsi a un nuovo romanzo:


L'inizio di un romanzo consiste in un personaggio, piuttosto che in un tema. Io so, per esempio, che questo personaggio ha soppresso la sua violenza. Io lo conosco. Io ho costruito il suo albero genealogico. Io conosco la personalità della nonna, del nonno, dei genitori. Per me, il suo stato civile è completo. Conosco le sue malattie e quelle della sua famiglia, anche se non userò certo tutti questi dettagli nella storia.
Quando i miei personaggi sono sviluppati, hanno bisogno di un indirizzo e un numero telefonico. Disegno l'appartamento in cui vivono, perché devo sapere se le porte si aprono a destra o a sinistra, se il sole entra da questa o quella finestra, se la camera da letto è rivolta a est o a ovest. Tutto ciò mi è necessario perché devo potermi muovere in quella casa come se ci fossi realmente.
L'inizio di una storia può essere un incidente d'auto, un attacco cardiaco, un'eredità. Qualcosa che cambia d'improvviso il corso della vita. L'avvenimento che scelgo è solo un pretesto per rivelare o dimostrare qualcosa che sta sotto... perché se abbiamo bisogno di un simile pretesto per cambiare la nostra vita, in realtà il desiderio del cambiamento risale a quando avevamo vent'anni, ma non abbiamo mai avuto il coraggio di provarci. Così, l'incidente è, in effetti, un rivelatore: potrei dire un catalizzatore...


Ora, tutte queste minute informazioni sui personaggi, Simenon le appuntava proprio su buste di Manila. Sempre e solo su buste di Manila. Facevano parte del suo rituale, come le pipe ben cariche e allineate sulla scrivania, le matite perfettamente appuntite, il cartello d'albergo "Do Not Disturb" appeso fuori dalla porta, una sfera dorata da impugnare durante le pause di riflessione...
Quelle buste sono un mistero. Probabilmente, nessuno tranne Simenon avrebbe potuto trarre dalle indicazioni su quelle buste un romanzo. Certo, non hanno nulla a che vedere con la scrupolosa scaletta che Francis Scott Fitzgerald aveva predisposto per "Gli ultimi fuochi", e che ci consente di conoscere la fine di quel romanzo interrotto dalla morte dello scrittore.
Il mistero della creazione letteraria, per l'appunto.