Ma i manuali di scrittura creativa servono? Esattamente non lo so: forse, non più di quanto "serva" il Kamasutra. Di certo, non basta il Kamasutra per diventare Rocco Siffredi, su questo siamo tutti d'accordo.
Però leggere il Kamasutra è divertente (e per certuni illuminante), così come è divertente (e per certuni illuminante) leggere alcuni manuali di scrittura creativa.
E' difficile divertire con la scrittura creativa: dopotutto, si tratta di fornire indicazioni riguardo la parte più faticosa del processo di scrittura, quello che si fa col sedere (cioè, stando materialmente inchiodati alla scrivania, un po' come si obbligava a fare l'Alfieri). Eppure, ci si può riuscire: lo dimostra "Come si scrive un romanzo di genere" di Massimo Mongai, uscito da poco per i tipi Omero.
Preciso che conosco Mongai da anni e che apparteniamo entrambi a quel gruppo di scrittori di mystery aggregatosi sotto "RomaGialloFactory", oltre ad aver vinto entrambi il Premio Urania (e Massimo ci è rimasto molto male quando ho vinto anche il Tedeschi, perché contava di vincerlo prima lui): e tuttavia cercherò di essere obiettivo, come lo fu Carlo Emilio Gadda quando si trovò a recensire un libro dell'amico Bonaventura Tecchi (lo rovinò letteralmente: ma di questo, a suivre).
Il manuale di Mongai parla soprattutto di Mongai: nel senso che racconta come scrive Mongai (e Mongai scrive e parla tanto, credetemi), cioè uno scrittore in carne (tanta) e ossa che è anche un gran personaggio di finzione, un Gideon Fell della Garbatella, un Orson Welles della Metro B, le cui lezioni di scrittura creativa diventano happening (cercatelo su YouTube). Naturalmente c'è tutta la parte noiosa di cui parlavo sopra, il soggetto, la scaletta, la scheda dei personaggi, il piano di lavoro, come si fanno le ricerche etcetera; ma lardellata di esempi concreti, presi spesso dalla sua diretta esperienza, e di esercizi che sembrano piuttosto sfide al lettore. C'è anche un'introduzione alla letteratura di genere, nella quale Mongai dà sfoggio della sua vis polemica e del suo essere politicamente scorrettissimo. Sentite qui:
... Troppo spesso cattivi scrittori e pessimi editori cercano di gabellare per genere quello che non lo è. Gli scrittori che lo fanno lo fanno quasi sempre per il migliore dei motivi: non sanno scriverlo un giallo vero, o quel che sia di qualsiasi genere. Non conoscono e non sanno applicare le regole. Non è che non vogliono (come spesso sostengono), non sanno: se sapessero farebbero; e se fanno altro, se quel che fanno, come sono loro i primi a dire, "non è solo un giallo" o "non è solo fantascienza", allora perché chiamare quel che fanno con un nome che non gli spetta? La macchinetta, il meccanismo del giallo, è difficile da scrivere. "Mettere un morto ammazzato al terzo capitolo, che ci vuole?", ho sentito dire questa imbecillità più di una volta. [Una di queste volte c'ero anch'io, è accaduto due anni fa e Mongai ancora trasuda bile al ricordo, giuro.] Mettere un morto ammazzato al terzo capitolo in modo coerente, con il meccanismo completo, plausibile e coerente fino alla fine è difficilissimo: prima ce lo metti poi mi dici che non ce lo vuoi mettere, e per cortesia non mi dire che mi stai vendendo un noir solo perché le atmosfere sono quelle.
Divertente, dunque. E illuminante? Bè, io sono rimasto colpito quando Mongai parla dell'essenza della storia, del racconto. Siccome sono un po' snob e me la tiro, in questo frangente lustro il monocolo e sfodero Franco Ferrucci e la sua teoria secondo cui, dai tempi di Omero, non facciamo che raccontare dell'assedio o del ritorno. Mongai no: lui tira fuori la vecchia canzone di Casablanca, "As Time Goes By"... ed è una sorpresa e un pezzo di bravura. Conosco quella canzone a memoria, da vecchio sinatrologo, eppure non avevo mai pensato che potesse essere interpretata a questo modo!
Su una cosa però non sono d'accordo. Mongai sostiene spesso, e lo fa anche in apertura di manuale, che "un buon romanzo giallo è prima di tutto un buon romanzo". Questo è un artificio retorico. Allo stesso modo, si potrebbe sostenere che un buon film porno è prima di tutto un buon film. In realtà, l'aggettivo "buono" ha una valenza diversa nei due casi, poiché il cervello è (in genere) molto più elastico delle parole che utilizza.
Però leggere il Kamasutra è divertente (e per certuni illuminante), così come è divertente (e per certuni illuminante) leggere alcuni manuali di scrittura creativa.
E' difficile divertire con la scrittura creativa: dopotutto, si tratta di fornire indicazioni riguardo la parte più faticosa del processo di scrittura, quello che si fa col sedere (cioè, stando materialmente inchiodati alla scrivania, un po' come si obbligava a fare l'Alfieri). Eppure, ci si può riuscire: lo dimostra "Come si scrive un romanzo di genere" di Massimo Mongai, uscito da poco per i tipi Omero.
Preciso che conosco Mongai da anni e che apparteniamo entrambi a quel gruppo di scrittori di mystery aggregatosi sotto "RomaGialloFactory", oltre ad aver vinto entrambi il Premio Urania (e Massimo ci è rimasto molto male quando ho vinto anche il Tedeschi, perché contava di vincerlo prima lui): e tuttavia cercherò di essere obiettivo, come lo fu Carlo Emilio Gadda quando si trovò a recensire un libro dell'amico Bonaventura Tecchi (lo rovinò letteralmente: ma di questo, a suivre).
Il manuale di Mongai parla soprattutto di Mongai: nel senso che racconta come scrive Mongai (e Mongai scrive e parla tanto, credetemi), cioè uno scrittore in carne (tanta) e ossa che è anche un gran personaggio di finzione, un Gideon Fell della Garbatella, un Orson Welles della Metro B, le cui lezioni di scrittura creativa diventano happening (cercatelo su YouTube). Naturalmente c'è tutta la parte noiosa di cui parlavo sopra, il soggetto, la scaletta, la scheda dei personaggi, il piano di lavoro, come si fanno le ricerche etcetera; ma lardellata di esempi concreti, presi spesso dalla sua diretta esperienza, e di esercizi che sembrano piuttosto sfide al lettore. C'è anche un'introduzione alla letteratura di genere, nella quale Mongai dà sfoggio della sua vis polemica e del suo essere politicamente scorrettissimo. Sentite qui:
... Troppo spesso cattivi scrittori e pessimi editori cercano di gabellare per genere quello che non lo è. Gli scrittori che lo fanno lo fanno quasi sempre per il migliore dei motivi: non sanno scriverlo un giallo vero, o quel che sia di qualsiasi genere. Non conoscono e non sanno applicare le regole. Non è che non vogliono (come spesso sostengono), non sanno: se sapessero farebbero; e se fanno altro, se quel che fanno, come sono loro i primi a dire, "non è solo un giallo" o "non è solo fantascienza", allora perché chiamare quel che fanno con un nome che non gli spetta? La macchinetta, il meccanismo del giallo, è difficile da scrivere. "Mettere un morto ammazzato al terzo capitolo, che ci vuole?", ho sentito dire questa imbecillità più di una volta. [Una di queste volte c'ero anch'io, è accaduto due anni fa e Mongai ancora trasuda bile al ricordo, giuro.] Mettere un morto ammazzato al terzo capitolo in modo coerente, con il meccanismo completo, plausibile e coerente fino alla fine è difficilissimo: prima ce lo metti poi mi dici che non ce lo vuoi mettere, e per cortesia non mi dire che mi stai vendendo un noir solo perché le atmosfere sono quelle.
Divertente, dunque. E illuminante? Bè, io sono rimasto colpito quando Mongai parla dell'essenza della storia, del racconto. Siccome sono un po' snob e me la tiro, in questo frangente lustro il monocolo e sfodero Franco Ferrucci e la sua teoria secondo cui, dai tempi di Omero, non facciamo che raccontare dell'assedio o del ritorno. Mongai no: lui tira fuori la vecchia canzone di Casablanca, "As Time Goes By"... ed è una sorpresa e un pezzo di bravura. Conosco quella canzone a memoria, da vecchio sinatrologo, eppure non avevo mai pensato che potesse essere interpretata a questo modo!
Su una cosa però non sono d'accordo. Mongai sostiene spesso, e lo fa anche in apertura di manuale, che "un buon romanzo giallo è prima di tutto un buon romanzo". Questo è un artificio retorico. Allo stesso modo, si potrebbe sostenere che un buon film porno è prima di tutto un buon film. In realtà, l'aggettivo "buono" ha una valenza diversa nei due casi, poiché il cervello è (in genere) molto più elastico delle parole che utilizza.
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