Massimo Pietroselli: romanzi e antologie

venerdì 11 gennaio 2008

Letteratura e realtà (2)

Ho iniziato questo argomento qualche giorno fa, riportando una considerazione di Carlo Emilio Gadda.
Adesso lo riprendo, lasciando la parola a Vladimir Nabokov.
Per inciso, lo scrittore e insegnante di scrittura creativa John Gardner sosteneva, forse ispirandosi alla filosofia del celebre Tuco - Eli Wallach, che gli scrittori si dividono in due categorie: quelli che parlano di sé e quelli che parlano degli altri. Nella prima categoria, Gardner metteva Proust, Joyce e Nabokov. Ci avrebbe messo di certo anche Gadda, se lo avesse conosciuto. Riteneva che a costoro mancasse qualcosa che gli altri avevano. E' una sua idea. (Si potrebbe citare quell'altro celebre pensatore, l'ispettore Callaghan, a proposito delle opinioni che "sono come le palle: ognuno ha le sue", ma sorvolerò.)
A conclusione di "Lolita", Nabokov riporta alcune considerazioni sulle difficoltà della sua pubblicazione e sulle interpretazioni e critiche che fioccarono, nel suo inimitabile stile raffinato e sferzante assieme. Poche paginette dove si parla di molte cose.
Anzitutto, Nabokov si sbarazza della visione pedagogica della letteratura:

Ci sono anime miti che giudicherebbero "Lolita" insignificante perché non insegna loro nulla. Io non sono né un lettore né uno scrittore di letteratura didattica... Per me, un'opera di narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estrema, cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri strati dell'essere dove l'arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma. Non ce ne sono molti, di libri così. Gli altri sono pattume d'attualità o ciò che alcuni chiamano la Letteratura delle Idee, la quale consta molto spesso di scempiaggini di circostanza che vengono amorosamente trasmesse di epoca in epoca in grandi blocchi di gesso finché qualcuno non dà una bella martellata a Balzac, a Gor'kij, a Mann.

(Capite perché ho scelto questa foto di Nabokov coi guanti da pugile?)

E' infantile studiare un'opera di narrativa per trarne informazioni su un paese o su una classe sociale. Eppure uno dei miei pochissimi amici intimi, dopo aver letto "Lolita", si preoccupò sinceramente che io (io!) dovessi vivere tra "gente così deprimente".

Queste considerazioni sfiorano il tema letteratura-realtà. Ma la seguente descrizione delle variazioni proposte da un editore al libro, centra in pieno la questione!

Un lettore disse che forse la sua casa editrice avrebbe preso in considerazione la pubblicazione del libro se avessi trasformato la mia Lolita in un ragazzino di dodici anni poi sedotto da Humbert, un agricoltore, in un granaio, il tutto ambientato in un paesaggio brullo e desolato ed espresso con frasi brevi, forti, "realistiche" («Quello dà fuori di matto. Come tutti quanti, sai. Anche Dio dà fuori di matto.»)... immagino che certi lettori trovino eccitante lo sfoggio di frasi murali di quei romanzi irrimediabilmente banali ed enormi, battuti a macchina con due dita da persone tese e mediocri, e definiti dai pennivendoli "vigorosi" e "incisivi".

Evidentemente, a quel tempo il "realismo" era un paesaggio brullo, ancestrale, alla Caldwell per intenderci, e le frasi murali brevi, forti e realistiche richiamano certi dialoghi di scrittori on the road. E' probabile che simili suggestioni oggi siano realistiche quanto il paesello di miss Jane Marple: anche la realtà è soggetta a mode.
Delle quali, Nabokov si fa allegramente beffe.

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