Massimo Pietroselli: romanzi e antologie

giovedì 8 maggio 2008

L'esotismo della Storia

Il romanzo storico conosce oggi una rinnovata popolarità, in particolare nel mystery e nel suspense, e anche nella fantascienza c'è una forte presenza di romanzi ucronici. Senza parlare del sottogenere dello steam-punk, dove si immagina un'Inghilterra vittoriana diversa e tecnologicamente evoluta.
Uno dei motivi è l'Esotismo, tipico elemento della letteratura di genere: esotismo temporale invece che di luogo (c'è un'ampia scelta di background, venti e passa secoli!); ma anche esotismo biografico (la possibilità di far vivere personaggi storici in situazioni particolari o bizzarre).
Un altro, è il Mistero della Storia: il romanziere può riferirsi a migliaia di eventi storicamente mai chiariti, per usarli come base di un "plot" accattivante. E se gli storici storcono il naso, pazienza: come diceva Dumas, uno che dell'argomento se ne intendeva, "La storia è un chiodo cui appendo il quadro del mio romanzo."
Inoltre, la Storia può fungere da cartina da tornasole: parlo del passato, ma in realtà parlo dell'oggi, e anzi, lo inquadro in una prospettiva profonda e più ampia. Leggete o rileggete "I pugnalatori" di Leonardo Sciascia, ad esempio.
Per dirla con Giulio Leoni, la Storia è un po' come un quadro divisionista: se lo vediamo da lontano, ne capiamo la forma, il senso, ma se ci avviciniamo, si rivela come un aggregato di puntini separati, insignificanti, misteriosi. Nello spazio tra un puntino e l'altro il romanziere può infilarsi, farci la tana come un verme, elaborare una trama, evocare un passato che non ha la pretesa di essere "realistico", ma semplicemente plausibile.

A Karen Blixen, l'intervistatore della Paris Review chiese, nel 1956: La maggior parte dei suoi racconti sono ambientati nel secolo scorso. Non scrive mai dell'oggi.
E l'autrice di "Sette storie gotiche" rispose: Sì, invece, se considera che l'epoca dei nostri nonni, quel tempo appena fuori dalla nostra portata, è così parte di noi. Noi assorbiamo molto senza rendercene conto.
Inoltre, io scrivo di personaggi che insieme formano una storia. Vede, io parto da un sapore del racconto (the flavor of the tale). Poi trovo i personaggi e loro spiccano il volo. Loro costruiscono l'intreccio, io do solo loro la libertà necessaria. Ora, nella vita e nella letteratura moderna c'è una particolare atmosfera e soprattutto un movimento interiore - ai personaggi, dico - che è qualcosa di diverso. Oggi è la solitudine il tema universale. Ma io scrivo di personaggi all'interno di un disegno, e di come essi interagiscono uno con l'altro...
Ma nelle mie storie il tempo è flessibile. Posso cominciare nel diciottesimo secolo e finire con la Grande Guerra. Questi periodi storici sono ormai ordinati, sono chiaramente visibili. Il presente è sempre in movimento, non hai la possibilità di contemplarlo tranquillamente.
Ero una pittrice prima di fare la scrittrice... e un pittore non vuole certo che il soggetto gli si muova sotto il naso; vuole fare un passo indietro e studiare il panorama con un occhio mezzo chiuso.


Il che riporta a Umberto Eco e al suo "Il nome della Rosa". Quando gli chiesero perché avesse scritto un romanzo ambientato nel passato, rispose: "Perché il passato lo conosco, il presente no."

venerdì 11 aprile 2008

Letteratura e realtà (3)

Questo thread ha visto finora parlare sull'argomento Gadda, Nabokov e Greene.
E' un po' grossa per un blog che si occupa di letteratura di genere. Tuttavia, riservandomi di lasciare prima o poi la parola a Raymond Chandler, ho deciso di inserire in questa quarta puntata un nome altrettanto illustre.
Luigi Pirandello.
Anche lui aveva le sue opinioni sulla verosimiglianza nell'arte.
Ecco, a beneficio di coloro che si arrovellano sul tema, alcune sue riflessioni riportate alla fine di "Il Fu Mattia Pascal", nel suo caratteristico stile lucido e paradossale a un tempo. La postfazione si intitola "Avvertenza sugli scrupoli della fantasia", e trovo che definire "scrupoli della fantasia" l'almanaccare sulla verosimiglianza, sia delizioso!

La vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l'inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l'arte crede suo dovere obbedire.
Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All'opposto di quelle dell'arte che, per parer vere, hanno bisogno d'esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità.
Un caso della vita può essere assurdo; un'opera d'arte, se è opera d'arte, no.
Ne segue che tacciare d'assurdità e d'inverosimiglianza, in nome della vita, un'opera d'arte è balordaggine.
In nome dell'arte, sì; in nome della vita, no.

lunedì 7 aprile 2008

La Busta di Manila si ipostatizza!

La Busta di Manila ha abbandonato la virtualità della Rete per approdare in libreria!
E' successo il 6 aprile scorso, alla Libreria Rinascita di Via Alpino 48 in Roma, dove alcuni autori del gruppo RomaGialloFactory hanno dato vita al primo appuntamento intitolato, appunto, alla Busta di Manila. Partecipavano Carmen Iarrera, Giulio Leoni, Nicola Verde, Luigi De Pascalis, Enrico Luceri, Massimo Mongai e il sottoscritto.
L'incontro, annunciato da un trailer che potete vedere qui, aveva per oggetto la creatività all'interno della narrativa di genere, mystery in particolare.
Cos'è venuto fuori?
Che le famose "idee" lo scrittore non le "prende", ma gli arrivano, come a tutti, continuamente. Solo, lo scrittore è più attento a fiutarle, a percepirle e a selezionare quelle potenzialmente valide. Ad alcuni le idee arrivano mentre stanno per addormentarsi, ad altri in sogno, ad altri ancora mentre stanno camminando lungo una strada (leggermente) in salita. A certuni mentre guidano la macchina; per questo, tengono dei post-it a portata di mano e una certa dose di amore per il rischio nell'animo.
Questo significa quel che il cognitivismo sa da tempo: ovvero, che l'attività conscia del cervello è largamente sopravvalutata. La maggior parte dei problemi vengono affrontati dalla mente in modo pre- o sub-conscio, e restituiti all'attenzione della coscienza una volta elaborati. La coscienza serve per impostare il problema, non per risolverlo. Per semplificare un discorso complesso: una volta imparata a portare l'auto, lo facciamo inconsciamente. Anzi, se ci mettiamo a pensare al piede che abbandona la frizione, è la volta che ci impalliamo. Allo stesso modo, lo scacchista di valore non esamina tutte le mosse possibili (questo lo fa il computer): si concentra sulle due o tre che istintivamente "vede" essere buone. Per chi vuol saperne di più sul tema, consiglio il libro di Julian Jaynes "Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza", ormai un classico.
Un'idea per un giallo avrà in genere a che vedere con un movente, con un omicidio particolare, con un indizio spiazzante; ma anche con un'atmosfera, con un personaggio, con un dettaglio, come una scarpa rossa abbandonata lungo il marciapiede.
Il "tipo" di idea determina di solito il tipo di giallo che si scriverà: un suspense richiede molta attenzione ai personaggi e all'ambientazione e molto di meno al motore della vicenda (quello che Hichcock liquidava come un "Macguffin"), un giallo a enigma richiede una situazione delittuosa complessa, e a questa situazione i personaggi possono esser sacrificati. Patricia Highsmith e Agatha Christie venivano sollecitate da tipi di idee molto diverse, perché diverse erano le loro personalità e i loro interessi.
Questi spunti vengono poi elaborati con l'aiuto del mestiere. Difatti, in fondo l'idea non può essere separata dalla struttura narrativa, che in un giallo è molto importante ed è, in parte, codificata o comunque presenta caratteristiche ricorrenti (lo stesso accade con le fiabe: se ho un'idea per una fiaba, in seguito i punti salienti individuati da Vladimir Propp mi aiutano a svilupparla in una scaletta di massima, che poi limerò e adatterò secondo la mia creatività).
Questo porta ad affrontare il tema dei ferri del mestiere. Ma dopo quasi due ore di discussione, RGF ha dato forfait e appuntamento alla prossima volta!

venerdì 21 marzo 2008

Un uomo come un altro: Ferenc Pinter

Se ne è andato pochi giorni fa e non se ne è parlato tanto.
Ma per chi ama i libri, è un gran dispiacere: era il più grande "copertinista" della Mondadori, assieme a Karel Thole. Diversissimi per stile, iperrealista e raffinato Karel (le copertine di Urania, di Fantomas, degli Oscar dedicati a Sherlock Holmes, per cui elaborò disegni dark in punta di pennino), impressionista e quasi naif Ferenc.
Pinter fu il disegnatore, tra l'altro, dei romanzi di Simenon dedicati al commissario Maigret - Cervi. Disegnò sia "Le inchieste del commissario Maigret", quattordicinale Mondadori che arrivò a 76 titoli, e gli Oscar dedicati al celebre commissario. Pinter non amava i disegni del quattordicinale, li definiva brutti e commerciali, tanto che in quei libri non è riportato nemmeno il suo nome. Preferiva, e forse a ragione, quelle degli Oscar, veri piccoli quadri nei quali, con i suoi semplici tratti, metteva in grafica lo stile sciutto, quasi anti-letterario di Simenon.
Fumava la pipa, Pinter, altra cosa che me lo rendeva simpatico, e in un'intervista disse: Bisogna anche sapersi 'vendere' e avere fortuna. Vendermi non è mai stato il mio forte e mi ritengo già fortunato di avere fatto il mio percorso in Mondadori senza fare mai mancare nulla alla mia famiglia. Forse le sembrerà strano, in questi tempi dove le tasse cercano tutti di evitarle, ma quando fatturai la mia prima collaborazione esterna ero orgoglioso di poter pagare le tasse. Ero soddisfatto di poter dare il mio contributo a questo Paese che mi ha dato tanto...
Forse in questo blog non c'entra granché, ma mi piaceva ricordare un uomo così.
Adesso, anche lui dorme il grande sonno.

mercoledì 12 marzo 2008

Greene, Hitchcock e il senso della realtà

Per un appassionato della lettura, non esiste luogo più promettente di una libreria dell'usato. Infatti, a causa della moderna abitudine di leggere tutti "a tempo", ovvero leggere tutti la stessa "novità" pubblicizzata dai media, i cataloghi si restringono e le liste dei libri in ristampa, come quelle elettorali, lasciano fuori nomi di prestigio (e sostanza).
Le librerie dell'usato offrono ai bei libri dimenticati un'opportunità di sopravvivenza per un ristretto numero di gourmet.
Graham Greene è uno dei miei scrittori favoriti: e il libro dimenticato dagli editori è "Vie di scampo", un'autobiografia letteraria che permette all'appassionato frequentatore di Greenelandia uno sguardo nel laboratorio e nei dubbi dello scrittore inglese.
Questo libro suggerirà certo spunti di riflessione al blog. Comincio con una gustosa contrapposizione di idee: Graham Greene (che è stato anche sceneggiatore e critico cinematografico) contro Alfred Hitchcock!
Ecco cosa pensa Greene dell'arte hitchcockiana:

L' "inadeguato senso della realtà" di Hitchcock mi irritava e continua a irritarmi... continuo a ritenere di aver avuto ragione (qualunque cosa possa dire Monsieur Truffaut) quando scrissi: " I suoi film consistono di una serie di piccole situazioni melodrammatiche "divertenti": il bottone dell'assassino che cade sul tavolo del baccarat; le mani dell'organista strozzato che protraggono note nella chiesa deserta... molto superficialmente egli arriva a tali complesse situazioni (senza prestare la benché minima attenzione, durante il cammino, alle incongruenze, alle situazioni non risolte, alle assurdità psicologiche) e poi le lascia cadere: non significano niente, non conducono a niente."

E' probabile che Greene si riferisse all'intervista che Truffaut fece a Hitch, divenuta un libro (giustamente) famoso e in cui i due registi esprimono giudizi sull'arte della narrazione (che sia cinematografica importa poco) e... sui critici.

AH: Siamo logici:se si vuole analizzare tutto e costruire tutto in termini di plausibilità e verosimiglianza, nessuna sceneggiatura che si basi sulla finzione resisterebbe a una simile analisi; a questo punto non resterebbe che una cosa da fare: dei documentari.Chiedere a uno che racconta delle storie di tener conto della verosimiglianza mi sembra tanto ridicolo come chiedere a un pittore figurativo di rappresentare le cose con esattezza. Qual è il limite della pittura figurativa? Non è la fotografia a colori? Non è d'accordo?
Un critico che mi parla di verosimiglianza è una persona senza immaginazione.
FT: Ricordi che, per definizione, i critici non hanno immaginazione e questo è normale. Un critico dotato di immaginazione non potrebbe più essere obiettivo. E proprio questa mancanza di immaginazione che li porta a preferire le opere più spoglie, più nude, perché danno loro la sensazione di poter quasi esserne gli autori. Per esempio un critico può ritenersi capace di scrivere la sceneggiatura di Ladri di Biciclette, ma non quella di Intrigo Internazionale e di conseguenza attribuisce ogni merito a Ladri di Biciclette e nessuno a Intrigo Internazionale.
AH:Girare un film, per me, significa innanzitutto raccontare una storia. Questa storia può essere inverosimile, ma non deve mai essere banale. Il dramma è una vita dalla quale sono stati eliminati i momenti noiosi.

A ognuno la sua opinione. Io sto con Hitch. Nonostante Greene sia uno dei miei scrittori favoriti.

mercoledì 27 febbraio 2008

Come scrivo un romanzo: Wodehouse

Un articolo di Repubblica del 24 gennaio scorso (Il benessere? Viene dal buonumore -In tanti con lo "Yoga della risata") racconta lo sviluppo di una nuova disciplina, lo Yoga della Risata appunto. Inizia così: "Ridono senza un motivo per migliorare il proprio benessere fisico e psicologico, si riuniscono in tutto il mondo intorno a cinquemila e cinquecento centri specializzati che vanno dalla Thailandia alla Svezia, dal Giappone all'Italia e la prima domenica di maggio di ogni anno festeggiano la loro giornata mondiale. Chi sono?"
Io un'idea ce l'avrei, ma la tengo per me. Non ho però idea se questi sghignazzatori conoscano Pelham "Plum" Grenville Wodehouse (1881-1975), uno dei più fini scrittori umoristici prodotti dalla Gran Bretagna, e i suoi personaggi, dal maggiordomo Jeeves a Ukridge fino all'Imperatrice di Blandings: forse no, altrimenti un motivo per ridere l'avrebbero, e allora che fine farebbe la disciplina?
Wodehouse è un altro scrittore compulsivo, come Simenon e Dard, di cui ho parlato in precedenza. Nella sua lunga vita ha scritto un centinaio di romanzi, trenta lavori teatrali e una ventina di sceneggiature per il cinema. Inoltre, è stato paroliere per celebri musicisti. Senza aderire ad alcun Centro della Risata, mantenne sempre un umore allegro: durante la Seconda Guerra Mondiale, fu internato in un campo di concentramento tedesco, nel quale scrisse un romanzo - umoristico, ovviamente. Ingenuamente, accettò di parlare delle condizioni di prigionia dai microfoni della radio nazista: lo fece con tono leggero, fu accusato di tradimento, difeso da George Orwell e decise che non sarebbe mai tornato in Inghilterra - dove, del resto, non viveva più già da vent'anni.
A novantun anni ("Novantuno e mezzo! Novantadue a ottobre" precisava con civetteria) rilasciò alla "Paris Review" (nella serie "The Art of Fiction") un'intervista, in cui parla della sua attività di romanziere. Eccone alcuni brani.

Qual è la sua giornata tipo lavorativa, adesso?
Comincio ancora alle sette e mezza. Faccio la mia quotidiana dozzina di esercizi, colazione e vado nel mio studio. Quando mi trovo tra due libri, come ora, siedo in poltrona, penso e prendo appunti. Prima di cominciare un romanzo, raccolgo circa quattrocento pagine di annotazioni, per lo più incoerenti. Ma arriva sempre il momento in cui mi accorgo che un romanzo sta per iniziare. Riesco più o meno a vedere come si sviluppa. Tutto il resto è questione di dettagli.

Quindi lei predispone tutto in anticipo?
Sì. Per un romanzo umoristico devi avere uno "scacchiere" definito e testarlo, così da capire quando e dove si sviluppa la commedia... separarlo in diverse scene (puoi ricavare una scena da praticamente tutto) e lasciare tra loro meno "fuffa" possibile.

E' davvero possibile sapere dove si trova qualcosa di divertente in un preciso punto dello "scacchiere"?
Certo, anche se poi, nello sviluppo della storia, non gli rimani fedele. Non credo di essere mai rimasto fedele a uno scenario. Quando ho una scaletta ben definita, posso lavorare indefessamente. Lavoro al mattino, poi vado a fare una passeggiata, poi ricomincio a scrivere. Non lavoro mai dopo cena. Sono le scalette, la difficoltà: ci vuole un sacco di tempo per metterle a punto. Mi piace pensare ad alcune scene specifiche, non importa quanto assurde o improbabili, e poi lavorare avanti e indietro per giustificarle nella storia.

Corregge spesso? Fa molte revisioni?
Sì. E spessissimo mi accorgo che qualcosa andava in un altro posto: una scena che ho messo nel capitolo due mi accorgo, al capitolo dieci, che sta meglio qui, adesso.

Se dovesse dare un consiglio a uno scrittore di romanzi umoristici, cosa direbbe?
Arrivare al dialogo il prima possibile. Niente mette fuori uso il lettore più di una gran pennellata di prosa proprio all'inizio. Credo che il successo di un romanzo - se è un romanzo di azione - dipenda dai punti forti. Ti devi chiedere: "Quali sono le scene madri?" e quindi spremere ogni goccia di succo da loro. Io penso ai personaggi come ad attori sul palcoscenico. Mi dico: se un grande attore avesse questo ruolo, e capisse che dopo un forte primo atto non avesse praticamente nulla da fare per tutto il secondo, bè se ne andrebbe. Come posso dargli da fare per tutta la recita?

Si è mai arrabbiato con i critici? Ha mai pensato che fossero poco gentili?
No, mai. Non si può piacere a tutti.

Che ne pensa dei Beats? Qualcuno come Jack Kerouac, per esempio, che è morto qualche anno fa?
Jack Kerouac è morto! Davvero?

Sì.
O Dio. Non fanno che morire, vero?

martedì 12 febbraio 2008

L'intelligenza della forma

Meccanismi, meccanismi... in fondo il problema è tutto qui.
Avete una visione olistica o riduzionistica della Letteratura?
Qual è la sede del godimento artistico? Il cuore, il cervello o, come sosteneva il solito burlone di Nabokov, un punto in mezzo alle scapole?
La risposta, ve la preannuncio, è: "42".
(se non sapete a cosa mi riferisco, peggio per voi.)
Mentre queste domande incombono, di seguito riporto un articoletto uscito sul numero 94 di Vibrisse, a firma Giovanna Zoboli. Si intitola "L'intelligenza della forma" e mi sembra un chiarissimo contributo ai concetti di meccanismo, di costruzione, di artificio lettario che tanto piacciono a un modesto scrittore di formazione ingegneristica come il sottoscritto.

Una ventina d’anni fa, nelle sale della Triennale (esposizione milanese di arti industriali), ricordo l’incontro con un oggetto stupefacente: una gigantesca macchina il cui unico scopo era far muovere una biglia d’acciaio. Scivoli, piani, rotaie, ponti, scalette, tubi, altalene dislocati ad arte perché la pallina procedesse lungo un movimentato e complesso percorso. Il meccanismo funzionava sfruttando pesi, dislivelli, velocità e attriti, secondo le leggi della dinamica e della fisica. La gente, me compresa, si affollava intorno alla macchina e, in perfetto silenzio, rapita e concentrata, fissava il corpo metallico in movimento.
È l’unica cosa che ricordo di quella Triennale. Ma ricordo anche la ragione per cui tale memoria è durata fino a oggi. La macchina mi parve una metafora perfetta dei meccanismi narrativi. Quell’oggetto era una storia. Attraverso un sofisticato marchingegno, raccontava le vicende della sua protagonista: una biglia che – sebbene d’acciaio e pertanto non dotata di sentimenti, raziocinio e volontà – nel compiere il suo percorso mostrava una personalità spiccatissima. Aveva, infatti, indugi, arditezze, pigrizie, regressioni, slanci, depressioni, fin anche rabbie, ripensamenti e collere. O, almeno, procedeva così abilmente lungo la sua strada, da suggerire agli osservatori questa intera gamma di emozioni.
Questa macchina si sarebbe potuta definire “altamente credibile”. Non per niente mi è tornata alla mente leggendo gli interventi sul “farsi credere” di questi ultimi numeri.
Ma dal punto di vista della credibilità della storia, non credo che a uno scrittore sia necessario sapere ogni dettaglio della materia di cui scrive. Credo sia, in qualche modo, illusorio pensare che il possesso di tutte le informazioni serva, in sé, a costruire un testo capace di farsi leggere da cima a fondo.
In sostanza, la credibilità non è determinata dall’eventuale, comprovata verità o verosimiglianza dei contenuti di un testo. Credo che si tratti di qualcosa che con la verità o la verosimiglianza ha molto a che fare, ma in un modo più complesso e sottile di un rapporto diretto; in un modo anche sfuggente, direi, non del tutto controllabile dallo scrittore.
In qualche modo, la credibilità è uno degli attributi fondamentali non solo della letteratura, ma di tutte quelle particolari realizzazioni umane che per comodità mettiamo sotto il nome di “arte”. Per quanto mi riguarda, penso che la credibilità sia una sorta di “intelligenza della forma”.
Non di rado chi scrive ha l’impressione di risolvere un problema di logica matematica, anche se magari sta scrivendo solo una brochure aziendale. Non credo che la logica sottesa alle strutture del linguaggio si allontani molto dalla complessità e dal rigore della matematica. Ho avuto spesso questa impressione, mentre scrivevo: forse l’impressione sopra descritta di aver scritto una cosa “vera”, nonostante la consapevolezza della sua natura del tutto fantastica, deriva proprio da questo. Il linguaggio possiede una sua profonda intelligenza, che lo scrittore deve imparare a conoscere e a utilizzare.
Non credo che creare una forma intelligente, dotata in massimo grado dell’attributo della credibilità, sia qualcosa di molto diverso da quello che facevamo da bambine, giocando alla settimana enigmistica o guardando il cielo notturno, d’estate. In entrambi i casi, si tratta di stabilire nessi di senso profondo fra le cose. Stabilire vincoli di necessità tra elementi che magari appaiono uniti, ma in modo inesplicabile e misterioso, o addirittura sembrano lontanissimi fra loro, del tutto inconciliabili. Il linguaggio è uno strumento prodigioso, in questo senso. È come la matita che compone il disegno nascosto. O come l’occhio, che compone le linee che collegano stelle lontanissime fra loro, formando il disegno, del tutto arbitrario, ma assolutamente vivo, vero e pulsante di significato, delle costellazioni. Una sorta di meravigliosa macchina per stanare significati.
Viene allora un sospetto: e se fosse la biglia a descrivere il funzionamento della macchina anziché la macchina a raccontare la storia della biglia? Che siano tutt’e due le cose insieme? La cosa non è affatto improbabile.

Una precisazione: ma perché diavolo in questo blog lascio sempre la parola ad altri? Non certo per la passione dell' "ipse dixit".
E' solo che è così faticoso scrivere cose già dette da altri...
L'originalità, dopotutto, è una virtù decisamente sopravvalutata.