Massimo Pietroselli: romanzi e antologie

venerdì 5 settembre 2008

L'atto simultaneo dell'immaginazione

William Somerset Maugham (1874-1965) è stato autore di grande successo. Il suo periodo d'oro furono gli anni '30-'40 del secolo scorso, ma ancora oggi i suoi romanzi vengono ristampati (in Italia, da Adelphi), e recentemente da "Il velo dipinto" è stata tratta una nuova riduzione cinematografica, dopo quella con Greta Garbo nei panni della moglie adultera.
La sua è una prosa da narratore di razza, di quelli che avendo visto il mondo e conosciuto l'umanità in situazioni estreme non perdono tempo a raccontare del proprio ombelico; a volte arricchita da humour inglese; spesso da un certo cinismo nel commentare le miserie umane; sempre da un certo distacco, lo stesso distacco del pittore che si allontana dal quadro che sta dipingendo per studiarlo nella giusta prospettiva. I suoi occasionali aforismi a commento di certe situazioni, che sembrano trinciati dalla poltrona di un club per soli uomini, lasciano supporre che si infischiasse della teoria del narratore nascosto. D'altronde, come ebbe a scrivere:

Ogni convenzione ha i suoi svantaggi. Che bisogna mascherare il più possibile - e quando mascherarli non si può, tanto vale ammetterli apertamente.

Spesso, Maugham introduce i suoi romanzi con un tono colloquiale e fascinoso che mescola riferimenti al testo, ricordi personali e considerazioni sulla vita e la letteratura. Ad esempio, scopriamo nella prefazione a "Il velo dipinto" che la trama del romanzo gli è stata suggerita, anni prima, dalla lettura dei versi di Dante su Pia de' Tolomei. Da qui, Maugham passa a ricordare i suoi giovanili giorni trascorsi a Firenze, la sua affittuaria, il gusto del Chianti, le circostanze in cui venne a conoscenza di quei versi e come e perché solo parecchi anni dopo quell'idea si fosse trasformata in romanzo. Dopo di che, riflette come tra sé che quello è stato il solo caso in cui una trama gli è stata suggerita da un intreccio piuttosto che da un personaggio. E qui arriviamo al punto.
Uno degli argomenti più gettonati nelle scuole e nei manuali di scrittura creativa è questo: viene prima il personaggio o la storia? (come se la fantasia dovesse procedere come i sillogismi di Aristotele, dalle premesse alla conclusione...) Come al solito, in questo caotico blog ci si limita a proporre quel che ha dire sull'argomento questo o quello scrittore professionista. E sentire Maugham è sempre interessante, tanto che presto verrà riutilizzato (la sua prefazione a "Ashenden" è molto stimolante!).

Spiegare la relazione tra intreccio e personaggio è difficile. Certo non si può pensare a un personaggio nel vuoto; appena lo pensi, lo pensi in qualche situazione, occupato a fare qualcosa, sicché il personaggio e almeno le linee principali del suo agire sembrano essere il risultato di un atto simultaneo dell'immaginazione.

In rete è disponibile un articolo di Maugham molto interessante, "Come scrivo i racconti". Qui si sofferma sui personaggi, il che mi sembra faccia pendant con ciò che si diceva sopra:

Com'è noto, molti di noi sostengono che quando creano un personaggio non pensano mai a un modello in carne e ossa. Secondo me si sbagliano. Non analizzano con sufficiente scrupolo i ricordi e le impressioni a partire dai quali hanno costruito le figure che amano immaginare di essersi inventate. Se lo facessero scoprirebbero che immancabilmente questo o quel personaggio - sempre che non sia, come spesso accade, preso da un altro libro - è stato ricalcato su una o più persone da loro viste o conosciute. Del resto, i grandi scrittori del passato non hanno mai nascosto che i loro fossero ritratti dal vero...
Se quello che si cerca è un personaggio credibile, con una sua individualità, la cosa migliore è avere un modello cui ispirarsi. Dal nulla, l'immaginazione non crea nulla. Le serve il pungolo di una sensazione. Se la nostra fantasia è stata colpita da una caratteristica particolare (magari solo per noi) di qualcuno, ma poi quel qualcuno lo descriviamo in un modo completamente diverso, finiamo per falsificare tutto. I personaggi hanno una loro coerenza, e se si cerca di alterarla - ad esempio trasformando un tappo in uno spilungone (come se la statura non avesse una sua influenza sul carattere), o un tipo fisicamente fatto per essere flemmatico in un iracondo - si distrugge quella che Baltasar Gracián, con un'espressione meravigliosa, chiamerebbe la sua plausibile armonia.

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